Julien Temple: Detroit è un laboratorio per il futuro


TORINO – L’anno scorso vinse il Premio Cult con Oil City Confidential. Quest’anno torna con Requiem for Detroit? un canto funebre per la capitale americana dell’automobile che i torinesi non possono non guardare con attenzione (e apprensione). E tuttavia se la visione del cineasta inglese è nettamente post-apocalittica, quasi alla Cormac McCarthy, nel bellissimo documentario si respirano venti di speranza. Certo, la quarta città d’America, culla delle tre maggiori case automobilistiche del paese (Ford, Chrysler e GM) e laboratorio dell’american dream, è oggi un cumulo di macerie, fabbriche abbandonate, edifici sventrati, strade invase dalle erbacce, criminalità e spaccio. Ma è anche, come racconta il regista (tra i suoi film fiction figura Le ragazze della Terra sono facili), un luogo dove “stanno nascendo fattorie urbane e i giovani americani vengono qui per sperimentare nuovi modi di vivere insieme e nuove forme d’arte e di musica”.

 

Perché quel titolo col punto interrogativo?
Perché quello che stiamo vivendo non è la fine di Detroit, ma è la fine di una certa Detroit, la città di frontiera dell’american dream. Ora può emergere, dalle macerie del XX secolo, un altro tipo di città.

 

Come vive la distinzione tra documentario e fiction?

Non faccio distinzione e li pratico entrambi. A volte è più facile fare un film di finzione subito dopo un documentario, perché nel documentario sei più libero e puoi accumulare energia. Mi piace non sapere che cosa farò domani, conservare un elemento fortuito.

 

Perché Detroit?

Ho fatto questo film essenzialmente perché ero al verde e me l’hanno offerto. Quando sono andato a Detroit non sapevo cosa dovevo aspettarmi. Conoscevo solo la scena musicale, Eminem, l’industria automobilistica. L’aeroporto è il classico aeroporto americano, anonimo e moderno, ma mentre ci avvicinavamo al centro, ho cominciato a vedere una città devastata: lampioni divelti, casa bruciate e rase al suolo. E’ la nostra civiltà ad aver reso così questo posto… Ti assale un sentimento molto strano, ma non del tutto negativo. Detroit è stata il motore del sogno americano con l’industria automobilistica. Qui sono stati fabbricati i primi semafori, qui sono state ideate le autostrade, i centri commerciali, i sobborghi eleganti, la catena di montaggio. E’ questo il terreno che ha contribuito a costruire il benessere dell’America del XX secolo. Ma la fine del sogno americano non è necessariamente un incubo.

 

La gente reagisce alla crisi economica e al degrado in modo inatteso e creativo a quanto si vede nel film.

La popolazione sta dando prova di grande elasticità nel proiettarsi verso un futuro che può fare di Detroit la fucina di un sogno diverso, più umano e civile. Dalle rovine nascono manifestazioni artistiche. La distruzione totale ha messo in luce la brutalità del sistema e l’importanza per una città di avere un’identità unica. Detroit potrebbe essere il modello della città postamericana.

 

Un discorso che vale anche per l’Europa?
La mia città, Bridgwater, è considerata la Detroit del Somerset e sta andando in rovina in modo simile. Le industrie chiudono, la gente rimane senza lavoro. La crisi finanziaria ha accentuato questa tendenza. Sono in atto operazioni di pulizia etnica ed economica che mettono a repentaglio gli insediamenti urbani. Ma una città può rinascere riconvertendola. In Italia c’è una civiltà più antica, ma anche voi rischiate grosso se le cose non cambiano.

 

Una delle protagoniste del film, l’anziana Grace, è paladina di uno sviluppo ecosostenibile.

Grace ha 96 anni, ha vissuto l’ascesa dell’industria automobilistica con Henry Ford e il suo decadimento. Il suo sguardo la rende capace di valutare con saggezza quello che è successo e quello che accadrà. Gli alberi c’erano allora e resteranno anche dopo. L’idea di agricoltura urbana, di piccole comunità autosufficienti che non dipendono da enti locali corrotti per sopravvivere, è un’idea molto valida per il futuro.

 

Parliamo della questione razziale, molto forte nel film.

Detroit è stata fondata su una sorta di apartheid, qui il razzismo è sempre stato evidente. E’ stata costruita dagli afroamericani e 800mila bianchi hanno lasciato il centro della città. Ma il razzismo è un fenomeno globale: in Gran Bretagna con la crisi economica e l’attuale governo che privilegia gli interessi delle banche e di chi ha studiato a Eton, le persone più povere, cioè gli immigrati, pagano per favorire l’avidità della finanza. Ci sono interi quartieri, come Notting Hill Gate, dove gli immigrati non possono più vivere.
Insomma, il mondo intero rischia di diventare tutto come Detroit.

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01 Dicembre 2010

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