Se c’è un personaggio a cui è utile guardare nella lacerazione della società americana in vista delle prossime elezioni presidenziali, questo è proprio John Frederick Milius che compie 80 anni l’11 aprile. Chi sa un po’ di cinema lega il suo nome a film-culto come Un mercoledì da leoni, Il vento e il leone, Conan il barbaro. Chi ha molta memoria sa che dietro i successi di film come Dirty Harry /Ispettore Callaghan, American Graffiti e perfino Apocalypse Now c’è il suo zampino. Ma da quando, nel 2010, un ictus lo ha portato sul bordo della tomba, la sua voce sembra spenta e a nulla sono valsi i molti tentativi di tornare al centro della scena in un periodo liberal che poco tollerava il suo credo anarchico e libertario. Oggi però la sua figura è attualissima perché il suo credo riflette quello dell’America bianca, frustrata, impoverita che potrebbe vedere in The Donald la soluzione di tutti i mali. Ma Milius non è Trump, anzi detesta quel misto di avidità, affarismo, capitalismo di cui l’ex presidente è alfiere.
John Milius si definisce “un anarchico Zen e un samurai americano” ed è in questo impasto di culture e contraddizioni che bisogna indagare per capirne la grandezza e la segreta follia, in qualche modo lo stesso brodo di cultura che nutriva i disperati dell’assalto a Capitol Hill nel nome di un presunto riscatto politico e razziale. Milius incarna da sempre un’America che a noi magari piace poco, ma al contempo ci attira perché discende dalla stirpe dei cow boys e dei desperados, perché non fa distinzioni tra un fiero guerriero come Geronimo (una sua smagliante sceneggiatura per Walter Hill) e un criminale senza scusanti ma con l’aura del mito come Dillinger (la prima regia di Milius nel 1973). E’ sempre lui ad ammettere che, quando fondò la sua compagnia di produzione “Il nostro motto era Civitas Sine Prudentia, che si può tradurre come Irresponsabilità Sociale; io ci credo. E’ un’idea vitale e liberatrice perché gli americani sono sostanzialmente degli esseri socialmente irresponsabili … Chi altro avrebbe inventato la bomba atomica non per conquistare il mondo come i nazisti, ma per il suo contrario?”.
Con un uomo e un artista così si fa fatica ad andare d’accordo anche se con la sua faccia paciosa, l’allegria da eterno bambino, la capacità di sognare e inventare alla velocità doppia di tutti suoi colleghi, è difficile non trovarlo irresistibilmente simpatico. Del resto l’eletta schiera dei “giovani leoni” degli anni ’70 (Lucas, Coppola, Spielberg, a modo suo anche Scorsese) lo ha sempre additato come l’amico boyscout che cammina sempre un passo avanti e i molto liberal Sydney Pollack e Robert Redford non esitarono un istante a realizzare la sua prima, brillante sceneggiatura (Corvo rosso, non avrai il mio scalpo, 1972). C’è una singolare lista di grandi cantori dell’America cinematografica che noi europei stentiamo a collocare. All’inizio è stato così anche per John Ford, poi fortunatamente sdoganato dalla critica francese. Ma dopo, come abbiamo fatto pace con Roger Corman, Sam Peckinpah, Don Siegel, il sofisticato David Mamet o il guerrafondaio Tom Clancy? È necessario accettare le loro contraddizioni – Clint Eastwood potrebbe fare da portabandiera – e guardarsi bene dal fare di ogni erba un fascio. John Milius ama allo stesso modo pionieri e nativi, crede nei samurai (da ragazzo è rimasto stregato dai film di Kurosawa) e nell’eroismo solitario dei surfisti (lo è stato anche lui da giovane e Un mercoledì da leoni è la sua proiezione mitica), voleva ad ogni costo arruolarsi nei marines per andare in Vietnam e venerava la forza ancestrale del suo Conan che esce da un allegro miscuglio di credenze celtiche e fumetti per ragazzi, sul filo della magica ampolla del Dio Po.
Di fatto poi fece i conti con la sua estrazione piccolo borghese (il padre fabbricava scarpe e si ritirò dopo aver fatto tre figli per godersi il sole della California) e il sangue ebraico malvisto dai compagni di scuola; fu spedito in collegio in montagna perché stava crescendo come un delinquente sulle spiagge del surf e si mise a scrivere perché riformato alla leva a causa dell’asma bronchiale. Si vantava di saper raccontare con tutti gli stili possibili (da Hemingway a Conrad passando per gli amatissimi Melville e Kerouac), ma usò proprio i capolavori degli ultimi due (Moby Dyk e On the Road) per formare un suo stile riconoscibilissimo, da cantastorie omerico. Uscito dalla scuola di regia di Los Angeles (University of South California) trovò nell’agente e produttore Mike Medavoy il suo mentore a Hollywood e ben presto cominciò ad essere ricercato come sceneggiatore. La lista dei titoli che portano il suo marchio di fabbrica (spesso non riconosciuto per ragioni economiche) è lunghissima e spazia dal cinema alle serie tv. Quasi mai i risultati lo hanno lasciato soddisfatto e per questo decise di passar dietro la macchina da presa, avendo però più successo da produttore che da regista (sei film in tutto). Ma quando il Colonnello Kilgore dice a una recluta “Mi piace l’odore del napalm di mattina. Una volta una collina la bombardammo per dodici ore e, finita l’azione, andai lì sopra. Non ci trovammo più nessuno, neanche un lurido cadavere di Viet. Ma quell’odore… si sentiva quell’odore di benzina. Tutta la collina odorava di… di vittoria” si capisce subito che la firma sul copione è la sua. Non aveva parole tenere per Apocalypse Now John Milius: “Era una bella sceneggiatura ma Francis l’ha rovinata per fare il beatnik, a un certo punto va in tutte le direzioni e non si capisce più nulla”. Le sue ultime regie non sono entrate nel pantheon del cinema americano amato da noi europei: abbiamo scambiato Alba rossa (1984) per un film maccartista fuori tempo mentre voleva essere una satira pacifista; abbiamo sdegnato Addio al re (1989) in cui provava a riscrivere Cuore di tenebra alla sua maniera mettendo Nick Nolte nei panni di un pacifista Kurtz nel cuore della Polinesia.
Le cose sono andate meglio con la miniserie di HBO Roma che Milius ha personalmente concepito e prodotto. Anche qui si riflette bene la sua visione del mondo che fa svettare pochi uomini retti e valorosi nel verminaio della corruzione e della bassa politica. Fosse per lui il mondo dovrebbe essere dei guerrieri, ascetici, incorruttibili, nobili e generosi. Non a caso gli piacciono personaggi come Jack Ryan (ha rivisto le sceneggiature di Caccia a ottobre rosso e Sotto il segno del pericolo), il giudice Roy Bean (era suo lo script di L’uomo dai sette capestri poi rivoltato come un calzino da John Huston), perfino antieroi come Dirty Harry e Indiana Jones. Forse lo amiamo – io moltissimo – proprio per le sue insanabili contraddizioni; le stesse per cui amiamo ancora oggi l’America di John Ford e quella di Sam Peckinpah…
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