BARI. Il regista inglese John Madden è imbarazzato e nello stesso tempo lusingato che il suo nome sia avvicinato a “un genio quale Fellini che insieme ad Antonioni e Visconti ha influenzato la mia opera. Mi sento in buona compagnia”. Tra poco infatti sul palco del Teatro Petruzzelli riceverà da Piera Detassis il Premio Fellini 8½, un riconoscimento dal Bif&st per il suo cinema che nutrendosi di grandi attori ha saputo comunicare emozione, passione e humour. “Un Premio gradito, in fondo non ho avuto in passato personalmente l’Oscar, ma le sette statuette sono andate al mio Shakespeare in Love“, dice ironico.
Dopo la cerimonia anteprima del suo ultimo lavoro, Marigold Hotel, in uscita domani 30 marzo distribuito da Fox, con protagonisti attori del calibro di Judi Dench, Tom Wilkinson, Maggie Smith, Bill Nighy, Penelope Wilton, Celia Imrie e Ronald Pickup. Sono sette pensionati inglesi; una vedova sul lastrico, un disincantato Giudice dell’Alta Corte, una coppia litigiosa, due anziani in eterna ricerca d’amore e chi intende sottoporsi ad un intervento all’anca e lasciare subito dopo l’India. Decidono di trascorrere al meglio la loro restante parte di vita, con la metà dei soldi che sarebbero necessari nel Regno Unito, in un lussuoso resort indiano che credevano pronto ad accoglierli con le comodità annunciate dalla pubblicità.
Troveranno invece un hotel decadente, in attesa di essere ristrutturato dal giovane ed ingenuo proprietario (Dev Patel). E soprattutto s’immergeranno nell’India ricca di contrasti, tra tradizione e modernità, che li spingerà a nuove avventure e cambiamenti, lasciandosi il passato alle spalle. Come dice Sonny Kapoor, il giovane padrone del resort non finito: “In India abbiamo un detto: alla fine si sistemerà tutto. Perciò se non è tutto sistemato, significa che non è ancora arrivata la fine”.
Perché l’ambientazione è indiana?
La scrittrice Debora Moggach, dal cui romanzo ‘These Foolish Things’ è tratto il film, ha un forte rapporto con questo Paese che è magnificamente strano, dalla cultura così diversa che può procurare shock all’occidentale. Ci si sente abbracciati dalla vena di follia presente nella cultura indiana dove convivono l’antico e il moderno. Questi anziani fanno qui nuove esperienze, vivono una sorta di catarsi e alla fine non possono non ritrovarsi cambiati.
Quanto il suo film è fedele al romanzo?
Direi che ne rappresenta un’evoluzione, per esempio il personaggio interpretato da Tom Wilkinson, l’ex giudice dell’Alta Corte, non è presente nel racconto. Ma la differenza sostanziale è che il libro è rivolto al passato, alle famiglie dei personaggi. Io e lo sceneggiatore abbiamo concentrato la vicenda nel presente. I nostri anziani vivono un periodo sospeso del tempo e dopo un momento di grande confusione, quasi d’intossicazione, le cose diventano più chiare.
Non dobbiamo dunque aver timore della vecchiaia?
L’importante è riconoscere in quale momento della vita ci si trova e dunque saper invecchiare. Il film vuole dirci qualcosa di positivo su questa stagione delle nostra vita. Ci invita a vivere nel presente, perché è invece negativo preoccuparsi del passato e del futuro. Come nelle commedie di Shakespeare i personaggi del film si lasciano alle spalle la loro vita trascorsa.
Non c’è il rischio che il film si rivolga a un pubblico specifico?
In fondo i nostri sette pensionati sono dei ragazzi della terza età perché vivono emozioni e sentimenti che sono anche degli adolescenti e che non finiscono con l’avanzare degli anni. In Inghilterra il film è piaciuto anche ai giovani, ne sono rimasti sorpresi e l’hanno trovato divertente e rassicurante. Tant’è che alcuni di loro hanno voluto vedere Marigold Hotel insieme ai genitori o ai parenti anziani.
Non ha pensato che l’ombra della morte potesse rendere poco appetibile il film?
Sì, mi sono posto la domanda, ma non intendevo evitare la morte nel film, dove è ovviamente un altro personaggio, perché è dietro l’angolo. Credo sia necessario affrontarla, non dobbiamo averne paura. E tutto il film è pervaso da un senso di perdita. Ma non dobbiamo rimanere soli con la paura. Anche nelle commedie di Shakespeare è presente questo alone di morte.
Che cosa spinge questi anziani a stare insieme forse un revival della comuni hippy degli anni ’60, anagraficamente vicine a questi personaggi, o le difficoltà economiche?
In effetti mio cognato è intenzionato a organizzare qualcosa di simile alla comune di allora. Quello proposto dal film è forse un modello per invecchiare stando in compagnia e in amicizia. I personaggi, che vengono spesso da situazioni dolorose, trovano una via d’uscita nel sentimento di comunità. E credo che i giovani spettatori sentiranno questo aspetto vicino alla loro sensibilità.
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