Johan Grimonprez: “Se la politica divide, la musica unisce”

L'intervista al regista del documentario candidato all'Oscar 'Soundtrack to a Coup d'Etat', in arrivo al Seeyousound International Music Film Festival. Un lungo viaggio che intreccia la musica jazz all'omicidio di Patrice Lumumba


Dopo la vittoria al Sundance Film Festival e in una sconfinata serie di altre kermesse, Soundtrack to a Coup d’Etat arriva al Seeyousound International Music Film Festival in attesa dell’appuntamento più prestigioso, quello degli Oscar, dove compete nella categoria come Miglior documentario. Il film diretto da Johan Grimonprez è in programma il 22 febbraio nell’ambito del festival torinese, mentre sarà distribuito in Italia da I Wonder Pictures e sarà disponibile prossimamente su IWONDERFULL Prime Video Channels.

Nel corso dei suoi circa 150 minuti, Soundtrack to a Coup d’Etat ci porta in viaggio nel Congo del 1960 ripercorrendo l’ascesa di Lumumba da leader indipendentista a primo ministro del Congo, e delinea le cospirazioni dietro la sua morte. Il tutto ritmato dalle musiche di icone del jazz come Louis Armstrong, Nina Simone e Dizzy Gillespie, e dalla voce di personalità come Malcom X e Andrée Blouin. Il filo rosso che lega la musica e la controversa politica della guerra fredda – con la rivalità tra USA e paesi comunisti e l’avanzata dei movimenti di decolonizzazione – rivela dei segreti che nessuno dovrebbe ignorare, soprattutto chi, come noi, vive nel mondo occidentale.

Abbiamo intervistato il regista belga Johan Grimonprez, che ha lavorato a questa opera monumentale per circa otto anni.

Johan Grimonprez, quali sensazioni prova pensando al passato del colonialismo europeo e belga? Perché ha deciso di iniziare questo progetto così impegnativo?

La risposta è nella domanda: il passato non è passato. Ciò che sta accadendo oggi in Congo è il risultato di ciò che è accaduto negli anni ’60 e che noi raccontiamo nel film. Fondamentalmente il Belgio era in combutta con la CIA per rovesciare e assassinare il primo premier democraticamente eletto del Congo indipendente. Era in un certo senso il modo in cui l’Occidente voleva gestire le ricchezze del continente decolonizzato. E ciò che fu messo in moto allora oggi è esponenzialmente peggiore. Perché negli anni ’90 c’è stata la guerra mondiale africana, proprio nella zona del Kivu, e questa non è scomparsa. Ad esempio due settimane fa, l’M23, una milizia privata sponsorizzata da Kagame, il leader del Ruanda, ha invaso la città di Goma. Si sono resi responsabili di violenze su molte donne perché usano lo stupro come strumento di guerra per svuotare i villaggi e poter ottenere il controllo sui minerali.  È per questo che nel film ho inserito le pubblicità della Tesla e dell’IPhone, perché è una storia che arriva fino ai giorni nostri. Moltissime risorse ora sono diventate disponibili, ma il modello è lo stesso di 60 anni fa. Questo per me è un fattore importante anche perché ovviamente sono belga ed è stato un ottimo pretesto per scavare nelle pagine sporche della storia del mio Paese, portare alla luce quella storia che è sempre stata nascosta sotto il tappeto. Quando ero giovane, in Belgio non ho mai imparato la storia a causa di quello che viene definito ‘l’impero del silenzio’. Etichettano ancora Patrice Lamumba come comunista ma non è un comunista, era solo una strategia del Belgio per portare gli Stati Uniti dalla loro parte e farsi aiutare in un certo senso a rovesciare il governo. All’inizio del film, Patrice Lumumba dice: rido sempre alla domanda se sono comunista, non lo sono, sono africano.

Ha realizzato letteralmente due film in uno: da un punto di vista del lavoro d’archivio, quale aspetto è stato più difficile affrontare? Quello storico-politico o quello musicale?

La musica è parte integrante del palcoscenico politico. La politica e la musica non sono separate. Nel film ci sono Abbey Lincoln e Max Roach, uno apre letteralmente il film con il tamburo che cresce e l’altro lo conclude con un urlo. Ma sono i musicisti come Abby Lincoln ad avviare quella protesta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove Ayn Stevenson, l’ambasciatore americano all’ONU, annuncia l’omicidio di Lumumba: per protesta, insieme alla Women’s Writer Coalition di Harlem, Maya Angelou, la scrittrice, e Rosa Guy, la drammaturga, hanno effettivamente organizzato questa protesta con altri 60 manifestanti. La musica è parte integrante di tutto ciò, anche se è solo un urlo è pur sempre musica.

Ci sono tanti altri esempi nel film.

Quando Patrice Lumumba viene liberato dal carcere e viene inviato alla tavola rotonda di Bruxelles, nel mezzo del film, è accompagnato dal jazz africano, dall’artista rumba Joseph Cabaselli e da Dr. Nico e quando viene rivendicata l’indipendenza un paio di giorni dopo, fine gennaio 1960, cinque mesi prima dell’indipendenza, compongono sul posto a Bruxelles, nel Plaza Hotel, il Cha-cha dell’indipendenza, una canzone molto politica conosciuta in tutto il continente africano perché divenne anche l’inno del movimento di liberazione della Rhodesia, che allora era una colonia britannica e che alla fine divenne lo Zimbabwe. E poi si può parlare anche degli ambasciatori del black jazz, mandati come strumento di propaganda politica per conquistare i cuori e le menti del sud del mondo. Ma sotto sotto erano in realtà una copertura per un colpo di stato.  In particolare Louis Armstrong, quando arriva in Congo, la CIA e l’intelligence segreta belga stavano complottando per rovesciare quel primo governo del Congo. Quindi se la musica e la politica sono così intrecciate, e se la musica sale sul palco politico, allora noi le abbiamo intrecciate anche attraverso il montaggio. E quindi c’è un avanti e indietro tra la politica e la musica. E in ogni caso, abbiamo mescolato gli archivi. A volte mettevamo la musica negli archivi politici e viceversa, prendevamo un testo politico e lo inserivamo nelle composizioni jazz. Ma mentre la politica è tutta una questione di divide et impera, la musica vuol dire unire le persone.

Ho adorato la citazione di Duke Ellington: questo non è suonare il piano, questo è sognare. Secondo lei, il sogno di un’Africa unita e indipendente è ancora possibile?

Recentemente il segretario generale ha discusso l’ipotesi di includere il continente africano come parte del consiglio di sicurezza, perché è lì che anche le Nazioni Unite, in gran parte, falliscono. È lì che il consiglio di sicurezza viene gestito unilateralmente o monolateralmente dalle grandi potenze. Se il continente africano avesse un seggio nel consiglio di sicurezza, cambierebbe molto.  Ma nel sogno dell’Africa, si sa, c’è un sacco di movimento sotterraneo. Come con le donne violentate nel Kivu, nel Congo orientale, che hanno fondato una città chiamata Città della Gioia. Sono tantissime e attraverso il teatro e la musica stanno cercando di trasformare il loro trauma in attivismo. Come dice Rebecca Solnit in Paradise Built in Hell: le tragedie in realtà uniscono le persone. Credo fermamente che anche in luoghi disastrati ci sia spazio per un po’ di utopia. E quindi anche l’urlo con cui finisce il film è una sorta di sogno inverso. È rabbia, ma è rabbia che in realtà viene urlata come una sorta di posizione resiliente per dire che non siamo d’accordo con questo mondo. Urli per un altro mondo, per un altro sogno.

Nel corso del film osserviamo un dialogo continuo tra la comunità africana e quella afroamericana. Crede che questo dialogo esista ancora?

Quello che mi è davvero piaciuto quando ho fatto le mie ricerche è vedere come tutti i paesi si schierassero con Lumumba, tutto il sud del mondo sentiva un senso di speranza. Credo che il sogno panafricano fosse così presente che ha ispirato il movimento per i diritti civili in ogni loro aspetto. Penso che si tratti di una sorta di rete globale di attivismo, ma non nei media mainstream. Ci sono state molte persone del sud del mondo che si sono unite per iniziative d’attivismo e credo che esistano ancora oggi.

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22 Febbraio 2025

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