Sono rilassati ma abbastanza evasivi di fronte alle domande dei giornalisti – che ieri sera hanno riservato un bell’applauso al loro film – i fratelli Joel ed Ethan Coen, arrivati nella capitale per presentare fuori concorso al Festival di Roma A Serious Man. “Abbiamo ritratto l’ambiente ebraico in cui siamo cresciuti, all’epoca in cui eravamo ragazzini, quindi alla fine degli anni ’60. Ma non c’è niente di autobiografico se non il contesto, che comunque era lo spunto da cui è nato tutto”. Una delle loro pellicole più personali, dunque, e probabilmente proprio per questo affidata ai volti di attori non noti al grande pubblico, come il protagonista Michael Stuhlbarg, ritratto nei panni di un professore universitario a cui improvvisamente il mondo si rivolta contro. Introdotto da un prologo di circa dieci minuti tutto parlato in yiddish e slegato dal resto del film, A Serious Man racconta tutte le improvvise disavventure di un sempre più stordito Larry: la moglie vuole il “Gutt” – la separazione con rito ebraico – perché si è innamorata di un amico, i figli sono alle prese uno con la marijuana e l’imminente Bar Mitzvah e l’altra con l’ossessione di rifarsi il naso. Intanto uno studente cerca di corromperlo per essere promosso, la sua nomina a professore ordinario è minacciata da lettere anonime che lo denigrano e l’inetto fratello disoccupato Arthur (Richard Kind) si accampa sul divano. Per trovare conforto al crollo delle sue certezze, Larry si rivolge ai rabbini: i loro colloqui, grotteschi e ironicamente pomposi, sprigionano uno humour “very Yiddish”, non lontano da quello a cui ci ha abituato Woody Allen. Già presentato al festival di Toronto, A Serious Man uscirà in sala il 4 dicembre in molte copie con Medusa e, come ha dichiarato l’Ad Giampaolo Letta, “Sarà il nostro film di Natale”.
Quanto c’è della vostra vita in questo film?
A Serious Man riguarda una specifica comunità ebraica, quella del MidWest degli anni ’60, che è esattamente quella in cui siamo cresciuti noi. E’ proprio da questa ambientazione che siamo partiti per costruire la storia: è semplicemente un film su dei personaggi ebrei, e anche il prologo in yiddish sta lì ad anticipare e annunciare questo.
Il film fa ridere, ma è anche molto drammatico. Dal vostro punto di vista è una commedia o una tragedia?
Non lo sappiamo, è soltanto una storia e non abbiamo pensato a come potesse percepirla il pubblico. Dipenderà da come vorranno vederla.
L’identità ebraica nel film è fondamentale, e questo capita spesso anche nelle commedie di Woody Allen. Che somiglianze ci sono?
Il fatto che siamo ebrei è in effetti una parte enorme della nostra identità ed ha una grandissima influenza su ciò che facciamo e sul nostro modo di raccontare. Rispetto ad Allen noi del MidWest abbiamo una sensibilità meno cosmopolita, e i personaggi dei suoi film sono molto “ebrei-newyorchesi”, quindi diversi dai nostri protagonisti.
Il protagonista viene messo alla prova con mille difficoltà. Il riferimento è al personaggio di biblico di Giobbe?
Nello scrivere il film non abbiamo pensato a lui, ma in effetti ci sono delle somiglianze. Solo che nel suo caso ad essere messa alla prova era la fede in Dio, mentre qui viene messo in crisi lo status quo di Larry.
Le comunità ebraiche di cui parlate nel film come hanno reagito a questo ritratto un po’ dissacrante?
Finora non abbiamo avuto reazioni negative da parte della comunità ebraica, ma bisogna anche dire che gli ebrei ortodossi e molto religiosi non vanno al cinema& Siamo comunque piacevolmente sorpresi perché ci aspettavamo una reazione un po’ negativa, che è normale quando si ritrae una comunità specifica, negli Stati Uniti poi sono molto sensibili al modo in cui vengono descritti&
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