CANNES – Non doveva essere al festival, Mel Gibson, l’attore e regista australiano coinvolto in una pesante vicenda giudiziaria con la sua ex compagna Oksana Grigorieva che l’ha portato a una condanna a 36 mesi convertita in sedute di terapia e lavoro socialmente utile. Ma alla fine è apparso nella sala del Grand Theatre Lumière insieme alla sua regista Jodie Foster. A lei deve un ruolo che potrebbe segnare la sua rinascita, quello del protagonista di The Beaver. Ruolo ostico e impressionante, che sembra ritagliato almeno in parte sulle sue vicende personali: un uomo che tenta di sfuggire al disagio mentale inventandosi un alter ego di pezza, una vecchia marionetta a forma di castoro che parla e vive al posto suo, dandogli quella sicurezza che non ha mai avuto. È Walter Black, il padrone di una fabbrica di giocattoli ereditata dal padre, malato di una depressione gravissima. Dorme quasi tutto il giorno, si disinteressa agli affari e non riesce più a rapportarsi con la moglie (la stessa Foster) e con i due figli, uno ancora bambino e l’altro adolescente. È soprattutto il maggiore a soffrire della situazione, tanto che cerca di differenziarsi da quel genitore distruttivo annotando su post-it gialli tutti i tratti che ha in comune con lui e intanto nel suo liceo è famoso perché scrive temi e tesine a pagamento. Tra i suoi compagni c’è anche Norah (Jennifer Lawrence, Premio Mastroianni a Venezia per The Burning Plane), una coetanea molto dotata per la pittura ma che ha smesso di dipingere dopo il suicidio del fratello. E la loro storia d’amore è quasi un film nel film, per certi versi anche più emozionante e doloroso. Scritto da Kyle Killen, The Beaver è la terza regia dell’attrice americana due volte premio Oscar: Cannes l’ha selezionato fuori concorso, mentre in Italia uscirà il 20 maggio con Medusa. L’ex bambina prodigio è oggi una quasi cinquantenne radiosa, che parla un francese perfetto e che è un vero piacere ascoltare mentre spiega le ragioni di una pellicola “difficile” e poco amata, in parte a torto, dalla critica e dal pubblico Usa.
“The Beaver” è in qualche modo un film su commissione, che le è stato proposto dal produttore Steve Golin.
Ho letto la sceneggiatura e l’ho amata subito, ma all’epoca c’era un altro regista in ballo. Così ho detto: se dovesse stare male o qualsiasi cosa gli succeda, eccomi qua. Poi c’è voluto del tempo per realizzare il progetto, per renderlo personale e trovare finanziamenti. Nel frattempo ho fatto la mamma, diversi film da attrice e ho lavorato al progetto su Leni Riefenstahl, che per ora non si è fatto, ma che forse adesso riprenderò.
Ha pensato lei a Mel Gibson per il ruolo di Walter Black?
Ci voleva qualcuno che fosse in grado di rendere credibili sia i momenti comici che quelli drammatici. Lui è un attore straordinario, oltre che un mio caro amico dai tempi di Maverick. Poteva capire l’umorismo del personaggio, ma anche la sua lotta interiore. Mel si è davvero messo a nudo, senza usare trucchi. E ha trovato la voce giusta per il castoro, con un accento cockney, da working class.
Pensa che questo film riuscirà a riabilitare Mel Gibson?
Non lo so. So che per lui questo film è stato importante. Lo ha portato a riflettere molto e ha avuto un lato terapeutico. Oggi è fiero del risultato, ma è una persona molto riservata. Io non posso spiegare i suoi comportamenti, solo lui potrebbe farlo. Posso dire che siamo amici da molto tempo e che un uomo leale, riflessivo, una persona complessa.
È difficile essere regista e attrice allo stesso tempo?
Ci sono i pro e i contro. Conosci bene lo script e i personaggi e questo è positivo, ma hai meno sorprese. Come attrice non hai il controllo del film e sei responsabile solo del tuo personaggio.
Si è interrogata sull’insuccesso di “The Beaver” negli Usa?
È un film particolare, non per tutti, un film indipendente, che racconta due storie distinte, quella del padre e quella del figlio. Gli americani non sono molto a loro agio nella complessità, vogliono che una cosa sia riconducibile a un genere preciso, dramma o commedia. Comunque sarebbe atroce creare solo per piacere al pubblico. Se pensi sempre al box office, non arrivi da nessuna parte. Io sono contenta di aver fatto un film che resterà e di cui le persone parleranno ancora tra qualche tempo. Non contano solo gli incassi del primo week end.
La famiglia era già il tema dei suoi due primi film: “Il mio piccolo genio” e “A casa per le vacanze”.
Noi attori adoriamo la psicologia, ne siamo affascinati e la radice della psicologia è la famiglia. Fare film è il mio modo di affrontare le mie crisi interiori, è un processo di guarigione.
Un altro tema ricorrente sono le madri coraggio.
Ce n’è una anche in questo film. È l’esperienza che ho delle donne nella famiglia. Gli uomini sono instabili, mentre le donne sono affidabili, come pilastri. Anche il personaggio di Jennifer Lawrence ha una certa forza.
Cosa rappresenta il castoro per Walter?
È uno strumento di sopravvivenza. Ognuno di noi ha il suo, per me sono i film. Io non sono una che si piange addosso, cerco di andare avanti. Comunque nel caso di questo personaggio c’è una sindrome bipolare molto grave, un problema psichiatrico, che non è semplice tristezza o abbattimento perché qualcosa è andato male. Ma il film parla anche della relazione tra padre e figlio e del bisogno di avere dei legami: non è necessario stare da soli, come si dice a un certo punto. Questo per me è il cuore della storia.
La solitudine la riguarda direttamente?
Dipende in parte da come sono cresciuta. Tutti gli enfant prodige crescono un po’ soli. Ma è anche una bella cosa, che ti permette di essere creativo e che nessuno ti può togliere. Sul set, anche se ho attorno tante persone, nessuno comprende la mia esperienza in quel momento. Tutti gli artisti amano la solitudine e contemporaneamente la odiano.
Qui a Cannes quest’anno ci sono ben quattro registe in concorso. È una nuova tendenza?
In Europa ci sono sempre state le registe, diversamente dagli Stati Uniti, dove le autrici trovano spazio quasi solo nel cinema indipendente. Ma non credo che ci sia un complotto contro di noi. È una questione psicologica. Il cinema è un’attività che costa cara e i produttori cercano di diminuire i rischi. Quindi danno meno fiducia alle donne perché con le donne hanno paura di non recuperare i loro soldi. È un pregiudizio condiviso anche dalle produttrici. Ma le cose cambiano. Stanno già cambiando.
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