LOCARNO – 1792, Parigi. 2024, Locarno.
Le Déluge di Gianluca Jodice – che racconta gli ultimi giorni di Maria Antonietta e Luigi XVI (Melanie Laurent e Guillaume Canet) – ha aperto Locarno77: è una co-produzione italo-francese.
Gianluca, con questo film si misura con il cinema europeo: per il cinema italiano presente esistono possibilità e senso europeo del racconto su grande schermo, o si tratta solo di sparuti casi? E, in questo discorso, quanto può incidere il supporto di una figura come Paolo Sorrentino, tra i tuoi produttori associati?
Se facciamo un discorso produttivo, non essendo io produttore, rischierei di dire cose imprecise, rispondo quindi dicendo che tu puoi fare i film che riesci a immaginare, se non riesci a immaginare al di là dei dieci metri oltre casa tua non lo puoi fare. Insomma, bisogna immaginare le cose, così forse… forse riesci a realizzarle: ci sono ovviamente nel cinema italiano nomi, singole persone, registi, che lo fanno, lo sanno fare, e infatti hanno un riscontro anche fuori dall’Italia. Paolo è un amico da sempre, è un po’ un fratello maggiore: la produzione del film è stata faticosa, e c’è stato un momento difficile, in cui tutto stava un po’ vacillando, e lì Sorrentino ci ha aiutati a riconnetterci con la Francia, creando un po’ di legami, finché ce la siamo cavata da soli.
Con Le Déluge conferma una fascinazione per storie che appartengono a un tempo diverso dall’attualità, penso anche a Il cattivo poeta: perché va cercando periodi e vicende non strettamente contemporanee e, al contempo, cos’hanno queste storie di assolutamente eterno?
Non mi sarei immaginato come regista di film ‘storici’, infatti il prossimo sarà di ambientazione contemporanea… Sono interessato alla costruzione di questi film perché contengono una grande scintilla di presente, di contemporaneità. Non ho mai pensato di adagiarmi su un livello estetizzante, su un cinema pittorico: su Le Déluge il gioco è stato esteticamente anche quello di ricostruire, nel primo atto, l’immaginario del ‘700, per poi decostruirlo negli atti successivi, usando proprio stilemi molto inusuali per un film d’epoca, come la camera a spalla o grandangoli molto spinti, distruggendo la cartolina settecentesca. È la parabola finale dei periodi o delle persone che mi piace, raccontando le dinamiche della fine vengono fuori grandi lotte, sentimenti, verità prima sopite o rimosse, per ipocrisia o per diplomazia, mentre quando siamo vicini alla fine – che sia fisica, o politica – il tappo si stappa.
Infatti, Le Déluge è un film di cadute: del potere, delle apparenze, delle maschere pubbliche, che portano all’apocalisse personale. Cosa le interessa capire – e quindi raccontare – dell’essere umano?
Un elemento metafisico: cosa rimane quando ci si spoglia del ruolo sociale, politico, borghese o non a seconda del periodo? E quello che rimane è diverso da epoca a epoca, o è tendenzialmente uguale? Si dice in Antropologia che se l’uomo è intellettualmente cresciuto, emotivamente è identico a 3000 anni fa. Queste domande un po’ fondanti sono interessanti e eccitanti da rendere drammaturgicamente.
E la Filosofia, materia che lei conosce bene perché centro del suo percorso di laurea, in qualche maniera ha concorso per questo film?
Sicuramente la Filosofia è nutriente, detto questo non vorrei mai… fare un film ‘intellettuale’… perché il nutrimento che arriva dalla Filosofia è più profondo, aiuta a delineare una potenza di struttura, di domanda, di linguaggio, non c’entra niente con la confort zone di fare il film ‘politico’ o ‘morale’… insomma ci siamo capiti. Io sono un fan del detto godardiano: ‘il cinema è il contrario della cultura’, con tutta l’ambiguità che questa frase ci lascia, ho la presunzione di averla capita.
Dal titolo originale del film, che sintetizza ‘un diluvio’ come caduta, qualcosa potrebbe portare a pensare a Shakespeare, a La tempesta. Il suo titolo è una metafora degli eventi o c’è effettivamente qualcosa che voleva riconducesse al drammaturgo inglese?
È chiaro che il diluvio è metaforico, anche se il giorno della ghigliottina del Re pioveva davvero… ma più banalmente deriva dalla frase di Luigi XV, nonno di Luigi XVI, che disse alla Pompadour: ‘après moi, le déluge’ (‘dopo di me, il diluvio’)… lui era molto intelligente, forse al contrario del nipote, e aveva chiaramente subodorato che stesse andando tutto a rotoli, quindi, raccontando noi il ‘dopo di lui’, ecco il diluvio.
Mélanie Laurent e Guillaume Canet sono interpreti di caratura internazionale, ma anzitutto francesi, per cui la Storia che si racconta nel film, vuoi o non vuoi, gli appartiene: qual è stato il lavoro sul fronte del racconto storico, affinché assorbissero il tempo e le psicologie?
Scrivendo il film ho scoperto che questo passaggio specifico, questi 4/5 mesi di prigionia prima della ghigliottina, gli stessi francesi non lo conoscano così bene. Questa terra di mezzo non è un terreno molto battuto, nemmeno Mélanie e Guillaume lo conoscevano. Nella fase di documentazione scoprii anche cose che sembrano inventate, come quella di Maria Antonietta che suona La Marsigliese, e che invece è realmente accaduta: Cléry (Jean-Baptiste Cant Hanet, valletto di camera, ndr) nel diario racconta che ci fosse una vecchia pianola nella cella della regina e che una notte uno dei carcerieri le impose di suonarla. Il film è molto filologico, la sceneggiatura è stata il punto di partenza anche con gli attori. Poi, Guillaume ha fatto molte lezioni con un insegnate per persone con Asperger, poiché molti storici, con una, diciamo, diagnosi a posteriori, hanno pensato Luigi XVI avesse tutti i segni della sindrome: aveva una relazione minima con le altre persone, era asessuato, oggi potremmo definirlo un nerd, come hobby aveva quello di aggiustare o fabbricare serrature e orologi. Mentre a Mélanie ho suggerito il libro di Stefan Zweig, Maria Antonietta, un meraviglioso ritratto psicologico: lei ne è rimasta incantata, e così è diventato supporto alla sceneggiatura.
Le Déluge vanta anche una personalità estetica particolarmente maliante, con i contribuiti di una grandeur nostrana: Daniele Ciprì, Tonino Zera, Massimo Cantini Parrini, Aldo Signoretti. Una sua riflessione complessiva su questa squadra creativa e, di ciascuno di loro, ‘una parola’ per definire il talento e il tocco che hanno fatto la differenza.
Ciprì è uno dei più grandi dop al mondo, forse un po’ sotto sfruttato, e spero che Le Déluge lo dimostri a chi non abbia avuto prima occhi per vederlo: la sua duttilità gli permette di fare film su ogni periodo o ambientazione, in ogni condizione data. Massimo è un talento che racconta i personaggi attraverso i costumi, come deve essere la vera missione di un costumista: per lui la scelta è stata subito chiara sin da quando ha letto la sceneggiatura, per cui mi ha detto che non avremmo dovuto fare una passerella, una continua sfilata di abiti regali, essendo quella una prigione, dunque ha pensato un solo vestito per la regina e uno per il re, uno ciascuno per tutto il film, andando via via a spogliare, impoverire, denudare, dei tanti strati tipici degli abiti del Settecento. Poi, Tonino Zera, come Daniele Ciprì, è un talento che non ti lascia mai a piedi, è un lavoratore infaticabile. Aldo Signoretti, non ne parliamo: sono andato a guardare le parrucche di altri film sullo stesso periodo, e con budget enormi, ma erano… inguardabili in confronto alle nostre. Poi, a questi nomi aggiungo Fabio Massimo Capogrosso, il compositore delle musiche, che ha lavorato anche con Bellocchio, e da pochi anni fa il compositore per il cinema: è meraviglioso. La concertazione del tutto, più che con loro, è stata col budget: il nostro film aveva un budget sotto 7 milioni di euro… il problema è fare i conti della serva, la concertazione oltre che artistica è col portafoglio alla mano: devi fare ogni giorno di necessità virtù.
Le Déluge è stato co-prodotto anche da Ascent Film, Quad, Rai Cinema, con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte: al cinema dal 21 novembre con BIM.
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