Arrivato in concorso a Cannes in extremis (senza i neppure titoli di coda) portò a casa ben due premi: quello per la sceneggiatura e la Palma al miglior attore, un immenso Joaquin Phoenix. Stiamo parlando di A Beautiful Day, nuovo lavoro della cineasta e fotografa scozzese Lynne Ramsay (Morvern Callar, We Need to Talk About Kevin) che prosegue il percorso disturbante e patologico, visivamente affascinante ma al tempo stesso respingente. Il titolo originale era You Were Never Really Here ma è stato poi modificato, non solo in Italia ma su tutto il territorio europeo. Da noi esce il 1° maggio con Europictures in associazione con Dragon Production, preceduto dal successo americano: “Il pubblico statunitense – ha detto la regista – si è interessato alla storia e molti mi hanno chiesto se avevo progettato questo script primo o dopo lo scandalo Weinstein, anche il movimento #MeeToo si è detto interessato. Ovviamente l’avevo scritto prima, durante un soggiorno nella quiete dell’isola greca di Santorini, è un film complesso che cerca di raccontare le cose a tutto tondo e con onestà”.
L’autrice, osannata dai suoi ammiratori, ci catapulta in una dimensione sanguinaria e notturna, all’interno della mente di un killer ‘perbene’ che prende spunto dal personaggio della short novel di Jonathan Ames. Joaquin Phoenix (Il gladiatore, The Master, Vizio di forma) è Joe, uomo enorme e strapazzato dalla vita con una barba incolta e capelli sudici. ex agente Fbi, ora di mestiere fa il mercenario, è un sicario ingaggiato per regolare conti in sospeso. Stavolta lo chiamano per liberare una ragazzina (Ekaterina Samsonov) da un giro di prostituzione minorile legato a politici d’alto bordo, uomini potenti e intoccabili. Lui vive con l’anziana madre (Judith Roberts), che ama teneramente e che è il suo unico legame con mondo degli affetti. Alterna momenti di dolcezza a aggressioni efferate: tra l’altro accoppa le sue vittime a colpi di martello ed è considerato una macchina da guerra dai suoi committenti, anche se ovviamente, come scopriremo, la sua spietatezza è effetto di traumi infantili che ci vengono mostrati nei numerosi flash back.
“C’è una parte di buono in Joe – riflette Phoenix che recentemente abbiamo visto nel ruolo del disegnatore paraplegico John Callahan nel nuovo film di Gus Van Sant Don’t worry – anche se non ne ero consapevole all’inizio del progetto, probabilmente era in nuce anche nella sceneggiatura. Volevamo mostrare entrambe le facce del personaggio, che vive in un costante conflitto: da un lato cerca la pace della mente, ma dall’altro si va a infilare in situazioni pericolose. Volevamo che emergessero l’amore e la tenerezza nel rapporto con sua madre, ma anche la frustrazione che prova nel prendersi cura di lei, che è vecchia e malata. Non sempre il cinema riesce a mostrare la violenza e la bontà nello stesso fotogramma”.
Paragonato a Taxi driver di Martin Scorsese, il film è ambientato in una New York tetra e notturna e affronta il tema del vendicatore e dell’innocenza violata, ma lo fa attraverso una ricerca sul linguaggio congeniale alla regista scozzese che rivendica la velocità delle riprese molto rock’n’roll e il basso costo dell’operazione come anche un certo disordine creativo. “Rispetto al libro – dice – ho cambiato tanto, specie il rapporto tra Joe e la madre. E mi sono anche ispirata un po’ a mia mamma, che ha 80 anni e non sente molto bene per cui spesso guarda la tv ad alto volume e specialmente i gialli o i thriller, così ho pensato di fare vedere Psycho alla madre di Joe nel film”.
Quanto a Phoenix, di cui in queste settimane si parla molto per un progetto costruito attorno al suo carisma attoriale e alla figura di Joker, è stato la prima scelta di Lynne: “Ho pensato subito a lui – rivela – anzi, avevo la sua foto sul computer mentre scrivevo, lo considero il più grande interprete al mondo”. L’attore ha lavorato in particolare sul corpo, iniziando circa otto settimane prima del set ad allenarsi: “Volevo che avesse un corpo ipertrofico, muscoloso e pieno di cicatrici. Joe è un vero uomo, come il protagonista di Lezioni di piano, e non un James Bond, ha una mascolinità pura”. E lui aggiunge: “Non scelgo in base alla dimensione economica di un progetto ma alle persone coinvolte. Se Lynne ora facesse un kolossal sarei interessato e curioso di partecipare. Nel caso di A Beautiful Day bisognava lavorare a ritmo serrato e cercare ogni giorno di dare il massimo. Da ogni inquadratura cercavamo di trarre qualcosa di diverso, per Lynne è stato certamente difficile, per me meno. Le ho regalato 70 ore di cacca che lei ha dovuto passare al setaccio per tirar fuori qualcosa di buono”.
Sui riferimenti a Scorsese l’attore 43enne risponde così: “Taxi driver è un film magnifico, uno di quelli che hanno fatto di me un attore, ma in effetti non ci ho pensato mentre giravo, non ci sono riferimenti coscienti a quello o altri modelli, credo che questo sia un film molto originale, certamente non un film hollywoodiano”. E sulla costruzione del personaggio racconta di interminabili chiacchierate con la regista: “Parlavamo tanto e non sembrava che andassimo da qualche parte, poi ogni tanto un’idea compariva come una scintilla. Però mi sono anche preparato: ho studiato come le esperienze di abuso influiscono sul cervello del bambino e sul suo modo di ragionare. Ci siamo resi conto che Joe, dopo quello che aveva subito, non ragionava. E Lynne mi spediva file audio con il rumore dei fuochi d’artificio per abituarmi a capire cosa c’era nella sua testa”.
Doverosa citazione per le musiche di Jonny Greenwood, il chitarrista dei Radiohead autore anche del soundtrack de Il Petroliere e Il filo nascosto, per cui è stato nominato all’Oscar. “Sembra quasi il suono dell’inferno – commenta la regista – è una musica che diventa personaggio e ti porta dove vuole lei”.
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