Jean-Jacques Annaud: il mio principe tra Corano e petrolio


Forse più che un film per il pubblico europeo, la favola a lieto fine in terra araba de Il principe del deserto, prodotta dal tunisino Tarak Ben Ammar con il suo tono tra l’epico e l’avventuroso sembra soprattutto rivolta al pubblico maghrebino e arabo. Il dodicesimo film di Jean-Jacques Annaud, basato sul romanzo “Paese delle ombre corte” dello svizzero Hans Ruesch e in sala con Eagle Pictures, 300 copie, dal 23 dicembre, vanta un cast d’eccezione: Antonio Banderas, Tahar Rahim, l’interprete franco-algerino de Il profeta, Freida Pinto, star internazionale dopo il successo di The Millionaire, e Mark Strong.
Protagonista è il giovane Auda, un principe nell’Arabia di inizio Novecento, prigioniero di due padri, di due visioni contrapposte ed estreme del mondo e del progresso, pronte a farsi una guerra fratricida mentre in quel deserto, fino ad allora simbolo di esprema povertà, si scopre l’oro nero. Già perché il conflitto tra i due sultani si alimenta quando nella contesa “Striscia gialla” appaiono i primi pozzi di petrolio aperti da affaristi texani. Il giovane principe, per amore della principessa Leyda, si trasforma da timido ragazzo di biblioteca in leader carismatico, capace di costruire un futuro per il suo popolo che tenga conto innanzitutto sia delle sue origini e degli insegnamenti antichi del padre naturale, sia delle inevitabili e necessarie aperture all’Occidente.

Di nuovo un suo film che è nel contempo un viaggio nel passato e una favola?
Il passato è eterno e poi mi piace ritrovarmi in luoghi per i quali non posso comprare il biglietto aereo. E amo le favole che hanno una distanza rispetto al tempo, come questo mio film che è atemporale, perché si tratta di una favola tuttora valida. E infine amo il cinema che fa sognare.

Come si è rapportato con il mondo arabo che mostra?
Con prudenza, cercando di offrire una visione la più onesta e la più documentata possibile di questo mondo, prestando attenzione alle varie posizioni ideali. Durante tutte le fasi di lavorazione ho consultato specialisti del Corano e della società civile araba. Come avevo fatto in passato per Sette anni in Tibet. E ho fatto tesoro di esperienze personali avute accanto a persone mai intolleranti o fondamentaliste.

Ancora una volta l’Islam tra modernità e tradizione.
La caduta di alcuni regimi non scioglie il confronto e il dibattito tra queste due tendenze, anche perché le recenti elezioni in Egitto hanno dato risultati inattesi per noi occidentali. Inoltre spesso, come vediamo nel film, i paesi arabi sono divisi in tante tribù e la loro unificazione è un grande problema.

Come è stato accolto il film al Festival di Abu Dhabi?
Ero preoccupato delle reazioni che poteva provocare questa storia narrata da un regista occidentale. E invece il film nel Maghreb e nel mondo arabo ha ottenuto un grande successo, anche perché gli arabi non vengono certo mostrati come dei terroristi. Il pubblico ha anche riso della scena in cui l’Imam e il sultano Nesib parlano della possibilità del divorzio secondo la religione islamica.

 

Ha rivisto “Lawrence d’Arabia”? Quanto l’ha influenzata?
Da più di vent’anni ho evitato di rivedere Lawrence d’Arabia, che mi era piaciuto, perché sapevo che avrei realizzato un film su questa regione. Ho rivisto i luoghi che furono allora il set, come la Giordania, ma ho scelto di girare altrove. Da allora quel mondo è stato occultato al cinema, poco o niente è stato prodotto ed io ho voluto scoprire le qualità epiche. Se vogliamo parlare d’influenze, allora direi il cinema di Kurosawa, Mizoguchi, Pudovkin, Ejzenstejn, Leone.

Quanto il suo film si distanzia da quello di David Lean?
Sono stanco di sceneggiature in cui si racconta di un giornalista o un’infermiera americana che scoprono il mondo arabo. Preferisco raccontare tante storie dal punto di vista degli altri, come è accaduto con Il nemico alle porte. Così qui ho scelto il punto di vista del giovane Auda per evitare interferenze della cultura occidentale.

Come sceglie le storie che narra?
D’istinto, mi devono appassionare. Spesso ho privilegiato vicende di trasformazione con protagonisti un orso, una ragazza, un monaco. E se i miei film appartengono a generi diversi, che ogni volta sperimento, hanno tuttavia questo elemento comune.

Come ha lavorato con Tahar Rahim?
Prima delle riprese lavoro moltissimo sulla sceneggiatura, preparo numerose storyboard. Ma resta la possibilità di intervenire attraverso il cuore e l’anima degli attori protagonisti.

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13 Dicembre 2011

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