CANNES – “Fulgida stella, fossi ferro come tu lo sei…”. Così scriveva John Keats nel 1819 in un sonetto dedicato alla sua amata, Fanny Browne. Dal sonetto prende il titolo il film che riporta Jane Campion, Palma d’oro con Lezioni di piano, in concorso a Cannes. Un film romantico e una tessitura complessa dove i personaggi femminili trovano una voce limpida, cosa piuttosto rara nel cinema. Un film che va alle radici, anche tragiche, del sentimento amoroso. “Allora l’amore è questo?”, si chiede Fanny esausta, disperata per la lontananza dell’essere amato, mentre giace a letto nella sua stanza che poche settimane prime ospitava decine di farfalle per dare vita a un’immagine suggerita in una lettera da lui.
E’ una storia tormentata, in gran parte epistolare, quella tra Fanny e il poeta di “Ode to a Nightingale”, che morirà a Roma, a 26 anni, di tisi. Dura poche stagioni, con lunghe assenze e con la consapevolezza che lui non è in grado di mantenerla e dunque di sposarla, anche se Fanny porterà a lungo il lutto alla sua morte. “Il destino di una giovane donna di quell’epoca – spiega la regista neozelandese – è un destino passivo, di attesa. La vita in famiglia, l’ossessione per il cucito, le restrizioni… Considerando tutti questi limiti, la sua passione determinata espressa attraverso le note che ha lasciato sotto il suo cuscino o presentandosi alla sua finestra quando lui era malato, spiccano anche di più”.
Una passione mai consumata, che il film ricostruisce nei gesti quotidiani, nei silenzi e nelle sospensioni, ma anche negli slanci. Con interessanti personaggi di contorno: l’amico di Keats, Mr Brown, uno scrittore con cui si intravede un legame omosessuale; la madre di lei e soprattutto la sorellina Toots, testimone e complice, una presenza che ricorda molto da vicino il duo madre-figlia di Lezioni di piano. Del resto anche qui il rapporto tra i due innamorati, all’inizio spigoloso, deflagra quando lei chiede a Keats di impartirle lezioni di poesia.
Prodotto dalla fedele Jan Chapman, con capitali australiani e britannici, interpretato da Abbie Cornish – paragonata da alcuni a Nicole Kidman – e Ben Whishaw, oltre che da Kerry Fox nel ruolo della madre, Bright Star in Italia sarà distribuito dalla 01 dal 28 agosto.
Come si sente a tornare in concorso a Cannes?
Ieri sera, leggendo i giornali, ero un po’ nervosa. Ma sono contemporaneamente molto felice.
Questo è un progetto a cui lavora da molti anni. Da dove è partita?
Da una biografia di Andrew Motion. Sono stata attirata dal dolore, dalla bellezza e dall’innocenza di questa relazione, sono come Romeo e Giulietta, ma all’inizio non capivo bene che tipo di film si potesse fare. Non volevo assolutamente fare una biografia, perché considero le biografie piuttosto frustranti, così ho deciso di raccontare tutto dal punto di vista di Fanny.
Le lettere e le poesie sono il materiale sonoro, le parole del film.
Le lettere di Keats sono piene di filosofia e di sentimento, purtroppo le lettere di Fanny sono andate perdute. L’amore ha bisogno delle parole, di costruire una relazione col mondo attraverso le parole. Oggi ci sono gli sms, ieri c’erano le missive.
Il cucito ha un ruolo di primo piano, tanto che la prima immagine di “Bright Star” è proprio quella di un ago che entra nella tela.
Le donne, a quell’epoca, non avevano molti strumenti per esprimersi, il cucito era uno di questi, e la passione di Fanny per i vestiti che si cuce da sé è quasi una forma di meditazione. Poi nel cucire c’è un ritmo che fa pensare al ritmo della poesia. Il film comincia con un filo bianco e finisce con un filo nero, quello dell’abito da lutto.
Quest’anno ci sono tre registe in concorso. Le sembra una buona percentuale?
Vorrei che ci fossero più registe, visto che le donne sono la metà della popolazione e danno vita al mondo intero. Il problema è che il mondo della cultura si basa su una critica molto aspra, è un mondo duro in cui le donne devono sviluppare una corazza per sopravvivere. Quindi, auguro buona fortuna alle donne in concorso.
E come spiega la forte presenza femminile nel cinema australiano e neozelandese?
La Nuova Zelanda è il primo paese dove le donne hanno acquistato il diritto di voto e l’egualitarismo è al centro della nostra cultura.
“Bright Star” è un film in costume molto rigoroso, che sfugge a tanti cliché sull’Inghilterra del passato, che cinema e tv hanno sempre raccontato con gli adattamenti dei grandi romanzi dell’Ottocento.
Io volevo una storia intima, volevo che i personaggi fossero realmente presenti. Così abbiamo cercato la semplicità, sia nei costumi che nell’arredamento.
Il suo ultimo film, “In the cut”, risale al 2003. Come mai ha aspettato tanto tempo?
Mi sono concentrata sulla mia opera migliore, mia figlia Alice, che ha 13 anni ed è qui con me a Cannes, anche perché è lei la mia musa, ha ispirato molti comportamenti e atteggiamenti di Fanny. Fanny era famosa per i suoi motti di spirito, e nel film le ho dato lo spirito di Alice.
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