Jafar Panahi


Panahi è in concorso a Venezia col suo terzo film, Dayereh (Il cerchio), co-prodotto con la Mikado. È usuale infatti per gli artisti iraniani cercare di legare il proprio progetto a un’entità occidentale, per garantire, più che la modesta copertura finanziaria (il costo medio di un film girato a Teheran è di circa 200.000 dollari), soprattutto la visibilità che garantisce la circolazione e la libertà di espressione, di fronte alle difficili condizioni politiche.
Il titolo è nel catalogo del venditore mondiale parigino Celluloid Dreams, uno dei pilastri europei del cinema iraniano (Kiarostami e lo stesso Panahi sono in listino).
Panahi affida la dirompente contestazione del sistema sociale iraniano al suo film, che non è azzardato definire rivoluzionario per l’estremo e coraggioso realismo della rappresentazione della condizione di oppressione femminile. A parole preferisce invece sorvolare su argomenti come la censura cinematografica e gli sviluppi politici dell’Iran.
Se non il pubblico, almeno gli altri cineasti iraniani hanno potuto vedere il film?
C’è stata una proiezione privata con una trentina di colleghi e tutti, entusiasti del film, hanno firmato una petizione alle autorità che infine, dopo otto mesi di stallo, ha sbloccato la pratica per il visto di censura. Ora, posso solo sperare che Il cerchio verrà distribuito nelle sale nel mio paese.
Com’è nata la collaborazione con Mikado?
Nel marzo 1999 sono stato in giuria al Festival del cinema africano a Milano e sono entrato in contatto con la Mikado, che si è detta subito convinta del progetto. Sono molto soddisfatto di come sono andate le cose anche in seguito.
I personaggi femminili nel film sono condannati a girare appunto “in cerchio” intorno al loro destino, incapaci di sfuggire alla morsa oppressiva della morale islamica. Gli uomini invece come vivono?
Anche gli uomini girano su se stessi, però in un cerchio più ampio. La società è una grande prigione, per tutti.
Quali donne hanno ispirato i personaggi di Dayereh?
Una e centomila. Dalle ragazze incontrate per i provini dei miei film ai racconti che si acoltano in una vita. Di certo, mia moglie è stata sempre un punto di riferimento importante, anche nella scelta delle interpreti, dato che mi ha affiancato nella ricerca; l’attrice che interpreta il personaggio della ragazza che cerca invano la fuga verso la campagna l’abbiamo conosciuta insieme per caso durante una passeggiata in un parco di Teheran.
Spero le donne capiscano che ho cercato di rendermi loro portavoce, con umiltà.
In occidente abbiamo difficoltà a comprendere le ragioni profonde della situazione civile del suo paese.
L’unica vera ragione è il tempo. Siamo dove eravate voi quaranta o cinquant’anni fa. Conosco l’Italia dai racconti di tanti amici che ci hanno vissuto e dai film del neorealismo, vedo molte analogie rispetto alla realtà femminile.
Qual è il regista italiano più rappresentativo di quel periodo?
Senza dubbio, Vittorio De Sica.

autore
07 Settembre 2000

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