Ivan Cotroneo: i miei anni ’70 a Napoli senza rimpianti


“Ogni famiglia ha i suoi segreti. Ma alcuni fanno più ridere di altri”. Lo dice Ivan Cotroneo che dal suo romanzo La kryptonite nella borsa (Bompiani) ha tratto l’omonima opera prima, una commedia vitale, prodotta da Indigo insieme a Rai Cinema, in Concorso al Festival di Roma e in uscita il 4 novembre. Esordio azzeccato nella regia, forte di una sceneggiatura ben scritta sia per i personaggi che per i meccanismi narrativi, a detta di tutto il cast. L’esperienza nella scrittura di Mine vaganti e della serie tv Tutti pazzi per amore ha reso evidentemente più facile il passaggio dietro la macchina da presa.

La kryptonite nella borsa si svolge nei primi anni ’70 a Napoli che per il regista erano piuttosto modesti, ma con una grande allegria e poche barriere sociali. “Non esistevano status symbol che segnavano differenze sociali. Anni liberi che ho voluto riportare in vita senza nostalgia e rimpianto, non pop ma realistici”.
Protagonista Peppino (Luigi Catani) un bambino che vive in una famiglia numerosa e un po’ speciale e con un cugino più grande che si crede Superman (Vincenzo Nemolato) a cui è molto affezionato. Alla sua morte improvvisa Peppino lo riporta in vita ed è grazie a questo amico immaginario, a questo superman un po’ taroccato che il piccolo protagonista riesce ad affrontare le vicissitudini familiari. In particolare la depressione della madre (Valeria Golino) dopo la scoperta del tradimento del marito, un papà (Luca Zingaretti) molto disattento anche se affettuoso, preso com’è dalla sua amante. Per fortuna in aiuto arrivano l’affetto e la compagnia degli zii materni, Titina (Cristiana Capotondi) e Salvatore (Libero De Rienzo), che portano però Peppino in luoghi poco adatti per un bambino: assemblee femministe, feste a base di droghe in cantine e balli di piazza. Ma alla fine in qualche modo le cose vanno a posto, il ragazzino supera la sua linea d’ombra e impara a volare.

Quanto è autobiografico il suo film?
Non tanto i personaggi e loro vicende, quanto il mondo del quartiere di Napoli dove ho vissuto: stravagante, colorato e pieno di misteri. L’elemento autobiografico più forte è quello che io, lavorando entrambi i genitori, sono cresciuto con i miei tre zii con i quali ho vissuto avventure border line, anche se non solo le stesse raccontate nel film. Una parte emotiva forte, perché uscivo di casa, scoprivo un mondo diverso, legami più liberi rispetto a quelli del nucleo familiare

 

Superman è il personaggio chiave che dà il titolo al film.
Sul quale ci siamo interrogati di più perché rappresenta l’accesso al mondo fantastico di Peppino e che ho voluto a misura di Peppino che proviene da una famiglia modesta. Volevo che pure il suo supereroe fosse scassatello, perché  nove volte su dieci non riesce a risolvere i problemi. A lui è anche affidato il senso del film perché è la vittima, colui che in qualche modo non riesce a integrarsi con gli altri. E’ un diverso in quanto supereroe in mezzo agli umani, ma alla fine dice parole molto precise su quanto sia importante accettarsi per quello che si è.

 

Un discorso, quello sul tetto, che non piace al bambino.
Il cugino Gennaro parla a Peppino della diversità e dell’importanza e la fatica di essere speciale. Il discorso infastidisce il piccolo che non è d’accordo, perché se da un lato contiene la speranza, dall’altro ricorda che la ricerca della felicità richiede fatica.

Il film è una sorta di romanzo di formazione?
Sì, non solo perché c’è un bambino che attraverserà la sua linea d’ombra, ma anche perché tutti i protagonisti si scontrano con l’eterna divisione tra sogno e realtà e chi più, chi meno riesce a cavarsela. Il senso del film è quello di affrontare la vita con l’ironia e la consapevolezza degli imprevisti e a volte anche delle tragedie che sono dietro l’angolo. Provengo da una famiglia molto numerosa e ho imparato che non si è mai soli nel bene e nel male.

Ma è anche un film allora sulla ricerca della felicità?
Sì. I genitori di Peppino cercano di mantenerla o di ritrovarla dopo un periodo difficile, di lontananza e sofferenza. Gli zii del bambino hanno entrambi un sogno infranto. Titina vorrebbe andare via da Napoli ma rimane ingabbiata in una situazione d’altri tempi, da lei non prevista. E a Salvatore resta il rimpianto di non aver aiutato quella sera una persona che ne aveva bisogno, il cugino Gennaro, anzi di averlo mandato via in malo modo. Alla fine la morale è che la felicità è possibile ma non è una passeggiata. E il bambino protagonista a questo punto è pronto a cercarla e ad affrontare la vita.

Come è stato il rapporto sul set con il piccolo protagonista?
Luigi è un bambino speciale, non ha avuto paura durante le riprese. E’ un bambino serio, senza nessuna esperienza cinematografica o televisiva, che canta da anni nel coro del San Carlo a Napoli. E’ lui a interpretare il famoso brano “Acquarius”. Mi ha dato solo una delusione, quando alla domanda quale mestiere sul set lo affascinasse, non ha risposto come credevo, cioè il regista, ma il direttore della fotografia. Merito di Luca Bigazzi.

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02 Novembre 2011

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