CANNES – “È stata al Festival di Cannes in tutte le sezioni e in tutti i ruoli, le manca forse solo di ricoprire il mio”, dice Thierry Frémaux nell’annunciare l’ingresso di Isabelle Huppert, protagonista di un incontro col pubblico, in una Sala Buñuel strapiena. Accolta da una standing ovation (che, va detto, quest’anno sulla Croisette viene concessa piuttosto frequentemente), ha esplorato senza filtri i territori, tra cinema e teatro, in cui la portavano le domande dei moderatori e del pubblico. L’attrice, che ha vinto due volte il premio come miglior attrice a Cannes e ha lavorato in tutti i continenti e molte lingue mostrando le mille sfumature della femminilità, spesso morbose, ha aperto il Festival di Avignone recitando ne Il giardino dei ciliegi diretta dal regista portoghese Tiaro Rodrigues.
“Sento spesso gli attori parlare del loro mestiere e dire che amano avere la possibilità di essere qualcun altro. Per me, invece, recitare è bello perché permette un incontro con sé stessi che viene declinato all’infinito sotto tante maschere diverse”, dichiara, sfuggendo a ogni cliché ed esponendosi senza timori. “È un cliché anche dire che un ruolo mi insegna qualcosa. Per me recitare è solo piacere puro e sensazione immediata, è un qui e ora, con un’intensità decuplicata a teatro”. Riflettendo sulle differenze tra palcoscenico e set, Huppert spiega: “Il teatro è un po’ come la creazione di un mondo. L’attore deve trovare il proprio posto in quel mondo che si modifica sera dopo sera, non solo per il contatto col pubblico. Al cinema invece quel mondo si crea anche dopo la performance, al montaggio, tappa finale da cui l’attore è escluso. Un film è definitivo, resta, uno spettacolo teatrale poi muore”.
L’attrice, che vedremo anche ne L’ombra di Caravaggio di Michele Placido, ha avuto ruoli e relazioni professionali importanti con Patrice Chéreau – che l’ha diretta in Gabrielle e anche a teatro – e con Michael Haneke, autore de La pianista (per cui è stata premiata a Cannes nel 2001). “Chéreau e Haneke lavorano in modo molto diverso. Patrice aveva una relazione forte con gli attori, la sua attenzione per gli interpreti aveva una forma di intensità che non ho trovato con nessun altro. Lui mi ha insegnato ad abbassare la testa, per mostrare magari il peso di una tristezza: diceva che non lo facevo abbastanza e mi infastidiva, poi ho capito che voleva raggiungere una forma di vulnerabilità. Haneke invece ha un rapporto molto diverso con gli attori, è ossessionato dalla precisione e dalle questioni tecniche. È un genio della verità, della credibilità, nessun gesto per lui deve suonare minimamente falso”.
Isabelle Huppert ha l’aria di sapere sempre esattamente dove si trova e cosa rappresenta, non a caso è una donna e un’artista che intimidisce. “Ma io – dice – non ho mai avuto paura davanti alla macchina da presa, non mi fa né caldo né freddo. A teatro posso essere ansiosa come tutti gli attori, ma il cinema non mi fa effetto. Per il resto, in generale, nessuno mi intimidisce”, conclude.
Consacrati al festival i talenti cresciuti nell’incubatore torinese e premiati 3 film sviluppati dal TFL, laboratorio internazionale del Museo Nazionale del Cinema che dal 2008 ha raccolto 11 milioni di euro di fondi internazionali
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