LOCARNO – “Un’autentica musa, protettrice del cinema”, così il direttore artistico del LFF, Giona A.Nazzaro, definisce Irène Jacob, insignita del Leopard Club Award a Locarno77, occasione per ripercorrere la sua carriera, cominciata con i primi passi nel teatro parigino e tessuta con il jazz e la saggistica.
Jacob – non alla sua “prima volta” a Locarno, come ricorda – si dice subito “molto commossa per il premio e di far parte di questo Festival, che mostra un cinema indipendente. Sono stata tre volte a Locarno, la prima con Tre Colori – Film Rosso (1994), poi come membro della Giuria, e adesso: questo premio incoraggia un percorso perché quando si è giovani si spera di fare il mestiere che si desidera, ma la cosa difficile è trasformarsi cambiando età, e accettando nuove avventure. Questo Leopardo – il simbolo del LFF – è come un grido che viene dalla pancia, un cinema che va al di là del commerciale, un cinema selvaggio”.
Irène Jacob si dà alla platea, generosa e appassionata, cominciando dal principio, che non è solo un racconto biografico – se si salda con il tempo più recente, ma il disegno di un cerchio esistenziale. “Sono nata a Parigi e crescita a Ginevra perché mio padre era un fisico e lavorava al CERN; lì ho cominciato a fare teatro e un po’ di tv”, per poi tornare, diciottenne, nella capitale di Francia.
Senza dubbio Jacob è quella musa cinematografica evocata in principio, ma la musica, l’arte della musica, non è secondaria nella sua storia, infatti è proprio grazie ai suoi studi in conservatorio che conquista il suo primo ruolo sul grande schermo, quello di Mlle Davenne in Arrivederci ragazzi di Louis Malle (1987), in cui lui “rende omaggio a Charlie Chaplin”: lei aveva 20 anni. “Ho fatto una scuola di teatro a Parigi, era un modo per cominciare a entrare nel mondo del lavoro; volevo incontrare registi con cui sognavo di lavorare e lì mi hanno proposto un casting con Malle, però… bisognava saper suonare… così come la musica era indispensabile per La doppia vita di Veronica (1991) di Krzysztof Kieślowski, che mi ha aperto la carriera. Tutto, senza la musica, non sarebbe successo”.
Un ruolo, quello nel film dell’autore polacco, arrivato a Jacob perché “Kieślowski aveva visto il film di Malle e così mi ha proposto un provino: stavo per fare un viaggio personale negli Stati Uniti, dopo aver girato un film indie americano, quando arriva questo provino… che significava però rinunciare al viaggio, pur senza avere certezze dell’esito, ma Margot Capelier, direttrice casting, mi disse ‘lo devi fare’, e così è stato, a Parigi. Poi, Kieślowski mi ha chiamata per un colloquio e mi disse: ‘farò un film che non ho mai fatto’, infatti è stato un film poetico, non sociale o politico come molti dei suoi. E mi ha spiegato che ‘quando si fa poesia bisogna essere concreti: devi dare molto di te’, e così ho fatto: avevo 24/25 anni e non avevo esperienza da protagonista, mentre qui avevo ben due ruoli; prima delle riprese, Kieślowski era tornato in Polonia, intanto io a Parigi ho preparato la parte con un coach, basandomi su gesti concreti che accompagnassero sensazioni; poi sono stata ospite alcuni giorni in una famiglia polacca, per conoscere come vivessero nell’Est”: Iréne Jabob, per questo film, vince la Miglior Interpretazione Femminile a Cannes ‘91.
“Con il cinema di Kieślowski ho incontrato un cinema interessato al mistero dell’essere umano, che non avrei mai pensato di interpretare. Il ruolo dell’attore è percepire il mondo ma serve anche uno sguardo: questo lavoro fa parte del mio dna ma è stato commovente conoscere quel tipo di sguardo cinematografico” e su Film Rosso riflette che “ci sono film che vanno al di là di tempo e frontiere: oggi Jean-Louis Trintignant e Krzysztof Kieślowski non ci sono più ma il film c’è ancora; possiede una modernità eccezionale e credo che Locarno sappia riconoscere la giovinezza dei film di ieri”. L’attrice pensa anche ad altri autori da cui è stata diretta, come “Rivette, Antonioni, Angelopulos: sono stati registi alla continua ricerca di un linguaggio sempre nuovo, sinonimo di cinema giovane, lontano dall’ossessione commerciale, infatti Kieślowski ogni giorno s’inventava un’ inquadratura, questo è un cinema non convenzionale, per cui è un cinema che poi resta”.
L’ha ricordato lei, ed è impossibile solo sfiorare Al di là delle nuvole (1995), esperienza dentro cui Jacob conduce ricordando che in quel momento Antonioni non riuscisse più a parlare e Wenders abbia così preso in mano le cose. Per Jacob “la cosa incredibile è che Antonioni avesse avuto un ictus, non parlava quasi, ma pensava in modo integro, per cui aveva voglia di continuare a dirigere. Wenders ha accettato di accompagnarlo per garantire il film. Antonioni disegnava a matita la scena, Wenders la realizzava. Il mio personaggio – la futura suora – diceva volesse ‘uscire dal suo corpo’, e io ho capito quella fosse la necessità di esprimere il proprio sentire di Antonioni: quando interpreti una storia interpreti quello che l’autore vuol dire, anche di sé. È stato molto commovente lavorare con Antonioni, lui era innamorato dei suoi film, ma non per superbia, erano come figli: cercava un contatto profondo con il cinema, è stato una grande ispirazione”.
La carriera di Iréne Jacob, indubbiamente molto scritta nel nome del cinema d’autore europeo, non è però stata monotona, infatti riconosce lei stessa di aver “ricevuto molte e diverse proposte: sono andata avanti in modo intuitivo, senza grandi agenti o entourage; ho scelto persone con cui avevo voglia di lavorare, a volte ho sbagliato, a volte è stato fantastico: la vita è come un’equazione. Col cinema, il mio è stato un matrimonio: prende molto posto nella vita e bisogna saper sempre rinunciare a qualcosa, bisogna saper gestire la quotidianità cercando equilibrio tra le varie componenti, anche personali. Io ho spesso cercato di capire di cosa avessi bisogno: di vivere in città o in campagna, per esempio? Conta anche questo. E poi c’è stato questo 2024, incredibile: ho fatto uno spettacolo a teatro e due film, uno con Amos Gitai e l’altro con Rithy Pahn, un anno pieno…”, che non è ancora terminato, infatti… “farò a breve una serie, franco-svizzera, girata a Ginevra, sarò una commissionaria: ci si deve permettere esperienze molto diverse, come quella di U.S. Marshals (1998) con Tommy Lee Jones, tutto un altro modo ancora di lavorare, infatti negli USA gli attori sono presi non solo perché capaci ma anche perché sanno impossessarsi della sceneggiatura, un approccio molto statunitense e britannico, ma non europeo, dove invece siamo molto rispettosi del testo”.
Il talento è istintivo ma per Jacob “cambia la prospettiva di recitazione a seconda dei registi e questo è fantastico perché non c’è un solo modo di recitare: può essere una preparazione fisica, o basata su letture, questo per la preparazione. Per prepararmi a una parte io leggo, guardo doc, e spesso scelgo delle musiche, perché ciascun personaggio ha un ritmo: la musica può davvero aiutare perché ci ricorda di essere specifici; quando scelgo e ascolto una musica, il mattino dopo, sul set, l’inconscio agisce. Quando si recita bisogna prepararsi molto per avere una riserva di gesti, musiche, improvvisazioni, per poi – sul set – restituire qualcosa di vivo. Ci sono dei trucchi tecnici per indurre un’emozione, come aspettare tre secondi a dare una risposta: bisogna prepararsi e aver fiducia nell’intuito. È anche importante appropriarsi di immagini da rinnovare continuamente”.
Se la serialità per Jacob è imminente con il progetto accennato, il tipo di racconto non è nuovo nella sua carriera, e un titolo spicca, The Affair – Una relazione pericolosa (2016), serie americana: “il ruolo non è venuto grazie a un self tape, come ricorre adesso, ma i registi avevamo molto apprezzato i miei ruoli con Kieślowski, ne avevano un ricordo affettuoso: ho letto primi due episodi, c’erano scritti solo quelli, e loro mi hanno detto ‘se accetti, scriveremo su di te’. Questo è stato fantastico”.
Ma, come detto, dire Iréne Jacob non significa solo dire cinema, ma anche musica, in particolare jazz, infatti – racconta lei stessa – “ho tre fratelli, il più piccolo è musicista, Francis: lui è stato un sole della mia infanzia, ma presto è andato negli Stati Uniti. Io avevo un po’ di nostalgia di quel rapporto così gli ho proposto di fare un album: io ho scritto i testi e cantato, lui ha composto la musica. È stato fantastico. È un investimento a lungo termine. Poi abbiamo fatto un secondo disco. Sono due opere artigianali e ne faremo altri: nella vita bisogna avere progetti…”.
E Jacob resta fedelissima a questo suo credo, tanto da aver anche scritto un libro, Big Bang. Perché scrivere, e perché scrivere “della nascita dell’universo”? Perché – spiega lei – “un’attrice passa il tempo a leggere testi degli altri. Io avevo scritto qualche testo qui e là, e questo libro l’ho scritto anche perché mio papà era un fisico e, finché io sono nata, c’era il mistero del Big Bang: una nuova percezione dell’universo, una ricerca che mi ha molto toccata, in cui l’intimo è connesso all’universale. È un po’ come nella recitazione: più si è personali e a più persone ‘si arriva’. Quando mio padre è morto, io ero incinta, e così ho avuto voglia di scrivere su qualcuno che non c’era più ma – al tempo stesso – era tangibile: scrivevo di un ricordo ma anche di qualcuno che stava per arrivare, tra morte e nascita; questo mistero ordinario mi piace anche nelle storie che interpreto. Il libro è un omaggio a questo: cosa vuol dire trasformarsi e dare vita, volevo parlare di come si sia connessi a qualcosa di più grande di quel che si conosce. Questo libro è stato un modo per parlare della morte, così della nascita”.
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