VENEZIA – Tra le opere prime in competizione alla Settimana della Critica l’esordio al lungometraggio di Irene Dionisio, Le ultime cose, un film che racconta tre storie che si intrecciano al Banco dei pegni di Torino sulla sottile linea del debito morale. Sandra, giovane trans, è appena tornata in città nel tentativo di sfuggire al passato e ad un amore finito. Stefano, assunto da poco, si scontra con la dura realtà lavorativa e assiste ai miseri maneggi nel retroscena del Banco. Michele, pensionato, per ripagare un debito si ritrova invischiato nel traffico dei pegni. Un racconto corale sullo stare nel mondo al tempo della grande diseguaglianza; un affresco tragico e insieme grottesco di una società basata sulle dinamiche economiche e sullo scontro epocale tra debitore e creditore. “Mi sono sempre domandata quanto e come ci modifichino i problemi economici che viviamo quotidianamente, cosa ci spinga a lavorare 14 ore al giorno per non possedere nulla, se non il semplice diritto di esistere – dice la giovane regista. Quanto un debito è soprattutto un debito morale, una colpa?”
Le ultime cose, una coproduzione Italia/Svizzera/Francia, arriva nelle sale con Istituto Luce Cinecittà dal 29 settembre.
Al centro del film la questione del debito che diviene quasi uno stato morale introiettato.
L’aspetto che ho voluto affrontare nel film è quello delle dinamiche economiche viste come qualcosa che noi stessi creiamo ma che poi rendiamo una questione individuale, introiettandole. Sentirsi in debito è diventata un’espressione morale, non più soltanto materiale, quasi una colpa. Il debito è una struttura che abbiamo creato noi esseri umani ma di cui rimaniamo travolti. Una riflessione presente anche nel saggio di David Graeber, Debito, che trovo di una semplicità illuminante: noi esseri umani tendiamo a desiderare qualcosa che è al di fuori da noi ma che finisce per dominarci. Anche il concetto di religione è simile, creiamo degli dei che incarnano i nostri ideali di bontà e finiamo per esserne dominati. Il sistema economico è una sorta di religione non spirituale, una creazione che non riusciamo a controllare. Il film si chiede, appunto, come riuscire a rifiutare tutto questo.
Perché ha scelto il banco dei pegni come luogo dove far intrecciare le tre vicende che compongono il film?
Volevo un posto che rappresentasse il debito in tutti i suoi aspetti e il banco dei pegni, da questo punto di vista, è il luogo che ne incarna le diverse angolazioni. Uno spazio denso di significato che brulica di una moltitudine di vissuti e di storie differenti – ricettatori, utenti e impiegati – e che racconta le dinamiche del capitalismo di oggi, dove l’essere umano si mostra in tutta la sua fragilità e impotenza di fronte a una rete organizzata e possente.
Il personaggio di Stefano, giovane neoassunto al banco dei pegni, parte come un puro che non appoggia le dinamiche cui assiste, ma alla fine sembra cedere in qualche modo al compromesso.
Stefano è un personaggio “specchio”, un ruolo complesso che rappresenta lo sguardo dello spettatore, la possibilità che offro al pubblico di fare un viaggio in una realtà che non conosce. Stefano è colui che arriva dal mondo esterno ed entra nel banco dei pegni, la sua reazione iniziale è quella che hanno tutti quando entrano la prima volta in contatto con questa realtà: sconvolgimento, stupore, disappunto. All’inizio rimane turbato dalle dinamiche interne che non capisce e che non appoggia. Ma man mano anche a lui vengono poste questioni compromettenti che hanno a che fare con la decisione di restare o meno in quel posto di lavoro. Non volevo un finale consolatorio: Stefano decide di rimanere e di cedere al compromesso perché ha lui stesso un debito morale nei confronti della sua famiglia e delle loro aspettative. Ma lascio aperta allo spettatore la possibilità del rifiuto totale.
Come vive l’esperienza di essere a Venezia con un’opera prima?
Sono molto emozionata e al tempo stesso avverto una grande responsabilità, quella di portare avanti la presenza dei nuovi autori ai festival. Vorrei ci fossero sempre più giovani a fare film e a poterli presentare in un appuntamento come questo. Mi fa ben sperare anche per il futuro l’iniziativa SIC@SIC di quest’anno rivolta ai giovani autori. L’essere stata selezionata dalla Settimana della Critica mi rende felice, soprattutto perché ho letto quello Giona Nazzaro ha scritto sul film e ho avvertito di essere stata compresa pienamente, anche negli aspetti più nascosti del film. E questo mi ha colpito molto: in fondo il desiderio di ogni autore è quello di essere compreso dal suo pubblico.
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Il film di Denis Villeneuve segnalato dalla giuria di critici e giornalisti come il migliore per l'uso degli effetti speciali. Una menzione è andata a Voyage of Time di Terrence Malick per l'uso del digitale originale e privo di referenti
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Anche se l’Italia è rimasta a bocca asciutta in termini di premi ‘grossi’, portiamo a casa con soddisfazione il premio Orizzonti a Liberami di Federica Di Giacomo, curiosa indagine antropologica sugli esorcismi nel Sud Italia. Qualcuno ha chiesto al presidente Guédiguian se per caso il fatto di non conoscere l’italiano e non aver colto tutte le sfumature grottesche del film possa aver influenzato il giudizio finale: “Ma io lo parlo l’italiano – risponde il Presidente, in italiano, e poi continua, nella sua lingua – il film è un’allegoria di quello che succede nella nostra società". Mentre su Lav Diaz dice Sam Mendes: "non abbiamo pensato alla distribuzione, solo al film. Speriamo che premiarlo contribuisca a incoraggiare il pubblico"