Insidious: i mille volti del diavolo


Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. Ad aggiungerci quelli ci pensa il regista James Wan, esperto di horror e creatore del celeberrimo Saw -L’enigmista, che con il suo nuovo Insidious, in sala con Filmauro dal 28 ottobre e presentato al Festival Internazionale del film di Roma nella sezione Spettacolo/Eventi Speciali riporta con coraggio Satanasso al cinema, inserendosi nel già ricco filone delle “case infestate”.

 

Non a caso, tra i produttori figura Oren Peli, autore del primo Paranormal Activity, che ha terrorizzato milioni di spettatori con il solo ausilio di una videocamera amatoriale, di un budget risicatissimo e del suo appartamento. Insidious, pur restando “indie” nello spirito, punta più in alto, pescando a piene mani dai classici del genere, e mescolando con disinvoltura demoni, fantasmi, proiezioni astrali e dramma familiare. Gli appassionati di horror e di fantasy coglieranno tante citazioni: L’Esorcista, Amityville Horror, Nightmare, Il sesto senso, Poltergeist, perfino incursioni di Ghostbusters e Star Wars. Del resto, si sa, il diavolo ha anche mille volti e mille nomi.

 

Ma Wan, giunto a Roma a presentare il film assieme al suo compositore Joseph Bishara, interprete anche di un demone brutto almeno due volte di più di come lo si dipinge, preferisce collocare altrove le sue influenze: “Certo con Poltergeist ci sono cresciuto, ma con questo film ho reso omaggi ai classici degli anni 50 e 60, come The Haunting, oppure a un piccolo film indipendente che conoscono in pochi, Carnival of Souls. E poi a mille storie spaventose che ho collezionato, come del resto lo sceneggiatore Leigh Wannel, che ci sono state raccontate da bambini, da familiari o amici. Credo che un film per fare davvero paura debba basarsi su elementi realistici, e avere a che fare con cose con cui tutti ci possiamo relazionare. Tutti abbiamo una casa, una famiglia, delle persone che vogliamo proteggere. Ma come fai a proteggerle se non sai davvero cosa gli accade?”

Sugli aspetti sonori la pellicola punta tantissimo: “Secondo recenti studi psicologici – afferma il regista – la gente seduta in sala quando si spaventa non si copre gli occhi, ma si tappa le orecchie. Non è ciò che vedi a far paura, ma ciò che credi di vedere e in questo senso la colonna sonora è importantissima, specie quando si lavora a basso budget. Pensiamo ad esempio a Blair Witch Project, dove sono le urla e i suoni del bosco a terrorizzare il pubblico, ma in realtà non si vede niente. Peli con Paranormal Activity, di cui sono un grande fan, ha poi portato il concetto a un nuovo livello. Il pubblico entra maggiormente dentro alla storia quando crede di vedere un videotape, molto più che con il modo tradizionale di narrare. Anche se, bisogna riconoscere, il primato per questo tipo di tecnica va a Ruggero Deodato, che l’ha applicata per la prima volta al suo Cannibal Holocaust“.

Inevitabile la domanda sull’horror italiano, allora: “Sono un grande fan del cinema italiano in generale – dice Wan – i vostri registi sanno sempre aggiungere qualcosa di nuovo a storie che magari abbiamo sentito un milione di volte. In particolare adoro Dario Argento, che mi ha molto ispirato per Saw, e poi Mario Bava e Lucio Fulci”. La trimurti, insomma, a cui si aggiunge “Sergio Leone. I suoi western mi piacciono molto di più di quelli americani”.

E le influenze di vedono anche nello stile: “I remake degli horror classici sono girati e montati come film d’azione, velocissimi. La paura per me è un’altra cosa. Ho voluto fare un film moderno ma che avesse anche un tocco vintage, tipico delle pellicole che mi piacciono di più”. Dunque molte luci, molto trucco e poca, pochissima computer graphic. Il salto sulla sedia qui è basato su archetipi del brivido, come la presenza di burattini, di cui c’era abbondanza anche nelle opere precedenti del regista, Saw e Dead Silence. “E’ come con i bambini. In un contesto horror spaventano perché destabilizzano: una cosa innocente che diventa pericolosa. Chi non si è mai chiesto se marionette e giocattoli, quando ci giriamo e non li guardiamo, non prendano vita autonoma. E’ piuttosto inquietante no? Una specie di versione horror di Toy Story“.

Con un finale inquietante. “Ma non prelude necessariamente a un sequel – specifica Wan – Io non sono in grado di progettare un film pensando ai suoi seguiti. Anche nel caso di Saw, per me era una storia conclusa. Se poi il pubblico chiede altro, beh, lo sappiamo, la produzione risponde. In questo caso, credo che il finale sia esattamente proprio ciò che ci voleva per concludere la vicenda. Volevo che il pubblico si portasse addosso l’inquietudine dalla sala, e dunque non potevo metterci un lieto fine…”

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27 Ottobre 2011

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