VENEZIA – Emozionata, appassionata e addolorata, una donna racconta con dovizia di particolari la triste avventura della figlia e del suo attraversamento del confine tra Messico e Stati Uniti. Intanto un uomo e una donna orientali si preparano per il colloquio per ottenere la cittadinanza americana e cercano le loro risposte – “…libertà di espressione, di religione, di movimento…”, balbettano incerti – alla domanda sulle motivazioni che li spingono a chiederla. Intanto un gruppo di attivisti gay e transgender manifesta davanti a un negozio i cui inservienti sono accusati di aver discriminato una cliente transessuale, mentre in una casa di riposo una signora molto anziana si sfoga: “Ho 98 anni, che ci faccio qui? Mi ucciderei se ne avessi il coraggio”. Nel nuovo documentario (il quarantesimo) del maestro americano Frederick Wiseman dal titolo In Jackson Heights, c’è una sintesi pulsante della società statunitense e uno sguardo, umanissimo e profondo, sui cambiamenti in atto.
Abituato a puntare la sua macchina da presa su istituzioni (ospedali, musei, corti di giustizia, università…) o specifici luoghi privati (una palestra di boxe, il Crazy Horse, un negozio), il cineasta Leone d’Oro alla carriera (vinto lo scorso anno insieme a Thelma Schoonmaker) si è concentrato stavolta su una comunità, quella di Jackson Heights nel Queens, a New York. Un quartiere in cui sono parlate 167 lingue diverse e che racchiude una eccezionale diversità etnica, religiosa, culturale. “Alcuni miei film – ha detto il regista a CinecittàNews – sono ambientati in un solo edificio. Boxing Gym è addirittura in tre sole stanze. Near Death in una corsia di ospedale. Altri si concentrano in quattro-cinque edifici, come Public Housing, altri ancora in aree più ampie, come questo. La tecnica, però, è sempre esattamente la stessa, tranne per il fatto che in un’area più ampia ho a disposizione più persone e più scelte”.
Accompagnato dall’operatore John Davey, Wiseman è entrato nei ristoranti, nelle sale da ballo, nei negozi di manicure, nelle classi, in una madrasa e in una macelleria halal, ha girovagato per le strade e ha seguito un personaggio ricorrente: il councilman (una sorta di consigliere comunale) dichiaratemente gay Daniel Dromm, che amministra un territorio in cui gli immigrati omosessuali e transgender sembrano sentirsi più protetti che altrove, mentre a sentirsi molto insicuri sono i proprietari di piccoli negozi, minacciati dalla diffusione delle grandi catene commerciali. Per realizzare In Jackson Heights – che alla Mostra è passato fuori concorso e la settimana prossima sarà presentato al Tiff di Toronto – ci sono volute nove settimane di riprese che hanno prodotto 120 ore di girato – “ma non è poi così tanto, per At Berkeley erano 250: i professori amano molto parlare”, ha commentato Wiseman -, organizzate poi grazie a 10 mesi di montaggio che ha “salvato” un quarantesimo del materiale.
Una delle spinte alla base del film è stata una riflessione sull’immigrazione: “Ero curioso di vedere cosa significasse essere un immigrato in America oggi. L’America è un Paese di immigrati, arrivati da tantissimi Paesi diversi alla fine del 19° secolo. Ciò che sta accadendo nelle più grandi città americane succede ora anche nelle più grandi città europee: i migranti vengono da luoghi diversi, dove le culture e le religioni sono diverse. Negli Stati Uniti ci sono circa sette-otto milioni di immigrati senza documenti, ma moltissimi ispanici e asiatici votano. Oggi è quasi impossibile essere eletti presidente degli Stati Uniti senza il voto degli ispanici, perciò i politici, anche molti di quelli repubblicani, sanno che devono confrontarsi in qualche modo con questo elettorato”. Se Jackson Heights possa essere considerato una sorta di laboratorio attraverso cui intuire il futuro del resto del Paese, Wiseman non sa dirlo con certezza: “Non so se sia un luogo speciale, solo è più estremo della maggior parte degli altri posti quanto a varietà di provenienze e lingue, ma ciò che accade a Jackson Heights sta succedendo ovunque in Occidente. Ciò che ho visto è che non è che non ci siano tensioni, ma di certo lì le persone stanno facendo uno sforzo per vivere insieme in armonia”.
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