IN DIFESA DEL CINEMA ITALIANO


“Io faccio film perché non so fare altro. Fu una scelta infelice che feci in passato, ma probabilmente non avevo altra scelta, nel senso che non avrei potuto farne nessun’altra. Oggi so che ho sbagIiato.
Il regista è una professione molto difficile, molto costosa, stancante e dà pochissime soddisfazioni se paragonata agli sforzi che richiede.”

K. Kieslowski

È con questa consapevolezza che affronto l’impegno della realizzazione di un nuovo film. Con la consapevolezza che sto per entrare in un lungo tunnel di cui vedrò l’uscita dopo un anno. Anche di più, se considero non solo il tempo che dovrò dedicare alla preparazione, alle riprese, al montaggio, ma anche quello in cui sarò impegnato nella promozione, nelle interviste, nelle presentazioni nelle città di provincia, nella partecipazione a festival piccoli e grandi.
Non è una buona cosa sottrarre così tanto tempo alla propria vita. Aggiungiamo a tutto questo i mesi dedicati alla sceneggiatura. Anche se quando scrivi una sceneggiatura hai la possibilità di indugiare, di tentare di non rispettare le scadenze. L’arte di rinviare fa parte del manuale di ogni regista. Rinviare non solo la stesura definitiva del copione, ma anche le scelte che riguardano gli attori, gli ambienti e i collaboratori più stretti. Forse perché sentiamo che di fronte all’impegno che abbiamo preso le nostre forze sono inadeguate. E’ vero. La fatica è troppo grande e le soddisfazioni sono rare.
In genere i registi non sono persone felici. Quasi sempre si sentono incompresi, sottovalutati. Quando raggiungono il successo, la cosa più carina che si sentono dire è:”al prossimo film avrai tutti i fucili puntati su di te!” Quasi tutti i registi hanno un rapporto difficile, un regista pensa di averla scampata e che il peggio deve ancora venire. Come ha detto qualcuno, “una buona recensione è solo il rinvio di un’esecuzione. Esecuzioni e fucili puntati! E questo quando le cose vanno bene. Figuriamoci poi se si appartiene alla miserabile etnia dei registi italiani. Le difficoltà di mercato, in qualche caso l’indifferenza del pubblico sono un fardello pesante per un desiderio colpevole, innaturale e socialmente inutile come quello di fare un film. E poi le ingiustizie, piccole e grandi, i torti subiti dalla cattiva informazione, la distrazione colpevole di chi dovrebbe valorizzare il tuo lavoro: manifesti e trailer sbagliati, brochures modeste, traduzioni e sottotitoli pieni di errori. E poi parlano di mercato! Non si conquista un mercato se non si vuole conquistarlo. Se non si usa l’ingegno per promuovere e vendere il nostro cinema. Se non si spendono soldi per attuare iniziative originali, concrete, visibili, utili e non rituali. Gli operatori economici del nostro cinema spesso sembrano rassegnati a perdere la partita.
Anche se all’apparenza si siglano contratti e si chiudono accordi. Si fa il minimo per ottenere il minimo risultato. Primo non prenderle. È un cinema spesso troppo assillato, pieno di paure, preoccupato di sopravvivere. Che non ha nemmeno la forza di replicare agli insulti, alle inesattezze, ai pregiudizi e ai luoghi comuni dei professionisti del pettegolezzo, i vari polemisti di settimanali e quotidiani. Quelli che quando scrivono un articolo dicono spesso cose inesatte e non si preoccupano di verificare, rettificare e tanto meno di chiedere scusa.
A certi disinvolti atteggiamenti giornalistici verrebbe voglia di replicare con una domanda. Dov’è finito allora il giornalismo italiano? È ancora vivo? Che ne è della sua tradizione?
Ma è proprio così brutto questo cinema italiano? E se provassimo a metterli in fila i migliori film degli ultimi cinque anni? E se ci trovassimo di fronte ad un elenco numeroso di titoli discreti, buoni, ottimi? Beh io credo che sia proprio così, e penso che il cinema italiano si possa difendere con i suoi film.
Penso che si possano riconoscere le fisionomie, gli stili, i temi, le tensioni di un mondo complesso, problematico, ma vivo.
Penso che affannarsi a discutere sull’esclusione degli italiani dal Festival di Cannes sia provinciale, stupidamente patriottico, così come provinciale è il pensiero di chi vede in questa esclusione la nostra debolezza. ma Cannes non è niente di più di un festival e come in ogni festival, i motivi di alcune scelte non sono sempre onorevoli.
Non ho mai avuto niente contro il cinema americano, anzi. Un film medio americano contiene una promessa di piacere che il più delle volte viene mantenuta. Eppure, nel momento in cui scrivo, sono presenti nelle nostre sale film americani piuttosto mediocri. Questa mediocrità non ha impedito che questi film incassassero delle cifre ragguardevoli. Il successo di un film è dunque sempre di più un successo mediatico.
Esiste, cioè, un’attesa nei confronti di questi film che viene indotta non solo dalla grancassa promozionale ma anche dalle scelte redazionali di riviste, quotidiani, telegiornali. Non è quindi più vera la vecchia legge che “un buon film marcia da solo”. Quelle regole di buon senso che spesso erano più efficaci delle più sofisticate analisi di mercato non valgono più.

(dal catalogo dell’Evento Speciale “Il cinema della transizione” a cura di Vito Zagarrio, Marsilio)

autore
03 Luglio 2000

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