Alcuni luoghi e alcune epoche sono diventati dei modi espressivi, delle cornici automatiche. Leggiamo Germania Est e pensiamo a persone e posti grigi, spie, vite degli altri in ascolto. Ed era così, certamente. Ma non solo così. Il problema delle rappresentazioni che diventano stereotipate (o archetipiche) è che mostrano la realtà come una, affogando i mille ecosistemi che contiene: se l’insieme era grigio, non è detto che non ci fossero foreste di colore.
Aelrun Goette, al suo primo film di finzione con In einem Land, das es nicht mehr gibt, si avventura in una di queste foreste: la moda underground della Berlino Est prima del crollo del Muro. È una scelta ben precisa, che non significa non mostrare tutta una serie di aspetti – l’oppressione, il costante attentato alla libertà, la mutilazione della creatività – ma adottare un punto di vista differente nella convinzione che molto altro c’è da dire.
Per motivi politici la diciassettenne Suzie (Marlene Burow) è costretta a lasciare la scuola e iniziare a lavorare in fabbrica. Casualmente le viene scattata una foto che finirà poi sulla copertina di Sybylle, il Vogue dell’Est, inaugurando così la sua nuova vita nella moda berlinese. Scoprirà un contesto che sembra quasi un pianeta diverso, fatto di libertà, espressiva e personale, emancipazione e resistenza anche attraverso i vestiti.
In a Land that No Longer Exists, presentato in anteprima internazionale alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Progressive Cinema, c’è molto della storia biografica della regista Aelrun Goette. Anche lei è stata una ragazza di Berlino Est, anche lei ha avuto problemi con la legge (fu arrestata durante una manifestazione pacifista), e anche lei ha trovato la sua rigenerazione esistenziale nella moda underground.
“Fui costretta a fare un lavoro che non volevo in una fabbrica che non mi piaceva – ha spiegato Goette – e quando grazie al lavoro da modella venni a contatto con il mondo underground, scoprii che esisteva un modo diverso per vivere. Quello rimane ancora il periodo più interessante della mia vita. In questo film, comunque, più che parlare di me, mi interessava mostrare come è possibile essere liberi, o tentare di esserlo, in un contesto di dittatura. Mi premeva anche dare un’immagine diversa di Berlino Est: io c’ero, l’ho vissuta, e non era sempre tutto così triste come viene rappresentato adesso. Questo è un film ambientato nel passato, ma che pone tante domande sul presente. C’è una frase che secondo me rappresenta molto bene il concetto che ricerco in questo film: devi vivere la tua vita guardando avanti, ma puoi comprenderla solo guardando indietro”.
Marlene Burow, che secondo la regista diventerà “sicuramente una star, è quello il suo destino” si è trovata nel complesso ruolo di interpretare la personificazione della sua regista. “Abbiamo parlato molto – ha spiegato Burow – soprattutto di come fosse Berlino Est, abbiamo cercato di ricostruire quanto più accuratamente il contesto anche mentale che una giovane si è trovava a vivere. Poi, quando ho avuto delle esitazioni bastava chiedere alla regista per avere una risposta più che mai precisa: interpretando lei, chi meglio di lei poteva darmi delle dritte?”.
“Tutto quello che vedete nel film – ha concluso Goette – è estremamente preciso. Abbiamo usato foto d’epoca e c’è stato un grande lavoro sulla ricostruzione. Abbiamo anche lavorato con una scuola di moda. Nel film ci sono due sfilate, e degli studenti di questa scuola hanno lavorato per noi. Con loro ci siamo molto confrontati, e abbiamo avanzato una richiesta creativa: non dovevano ricreare gli anni ‘80 berlinesi, ma dovevano assorbirne il mood, e restituirlo attraverso degli abiti. Ci sono riusciti magnificamente, comprendendo che si può fare resistenza politica anche attraverso la moda”.
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