“Il passato è un paese straniero: le cose vi accadono in modo diverso”. Sono le parole pronunciate dalla voce off all’inizio di Messaggero d’amore, il bel film di Joseph Losey, che nel ’71 vinse a Cannes la Palma d’oro; parole che mi sono tornate in mente quando l’Alpe Adria mi ha chiesto di essere presente a Trieste, la sera del 25 gennaio, alla proiezione della copia restaurata di Cuori senza frontiere, il film che Luigi Zampa girò in quei paraggi nel lontano 1949. Comprendo il motivo dell’invito, rivolto a me e a Tullio Kezich. Eravamo stati in qualche modo coinvolti, come critici cinematografici titolari dei due media più diffusi di quella città: lui a Radio Trieste, io al “Giornale di Trieste”, nome di circostanza assunto provvisoriamente dal “Piccolo”, la testata storica, troppo compromessa dal suo passato fascista e persino nazista (Trieste, spesso si dimentica, dall’8 settembre del ’43 sino alla fine della guerra, non dipese da Salò: fu incorporata nel Reich e il suo territorio prese il nome di “Litorale Adriatico”).
Più che critici eravamo dei pionieri, poiché operavamo in una città di tradizioni troppo colte per accettare il cinema tra le arti. Perciò le nostre recensioni avevano un che di missionario. D’altronde, la nostra attività non si limitava alla recensione dei film in uscita. Parallelamente avevamo dato vita alla “sezione cinema” del Circolo della Cultura e delle Arti, che raccoglieva la crema dell’intellighenzia cittadina. Se non fossimo stati sostenuti da Marcello Mascherini, una delle grandi firme della scultura italiana del Novecento, che dirigeva la “sezione arti figurative”, mai saremmo riusciti a penetrare in quella fortezza molto esclusiva.
Naturalmente, appena penetrati diventammo la sezione più vivace, tenuto conto che la situazione cinematografica di Trieste in quell’epoca era particolarmente disastrata, una sorta di “anno zero”, con le migliori sale cittadine requisite per le truppe angloamericane di stanza nella città (ci rimasero sino al 1954, fin quando Trieste e la Zona A della Venezia Giulia non vennero restituiti all’Italia), le altre costrette a tenere i prezzi calmierati per ordine del Governo Militare Alleato, il che impediva agli esercenti, sia di proiettare film i cui distributori chiedevano alte percentuali di noleggio, che di portare alle loro sale le migliorie necessarie per rendere la visione compatibile con le esigenze di un’epoca che non apparteneva più alla preistoria della “Settima Arte”. C’era sì il “Cinema del Mare”, sala gestita dal Partito Comunista della Venezia Giulia, nella quale avevamo potuto farci sul cinema sovietico una cultura sconosciuta nel territorio italiano; ma il 28 giugno del 1948 c’era stato lo scisma: Tito fu definito da Stalin un “governante turco” (così recitava la scomunica del Cominform) e il “Cinema del Mare”, che si riforniva di pellicole in Jugoslavia, dovette adeguarsi alla grama realtà dell’esercizio cittadino.
L’”anno zero”, però, presentava delle convenienze a chi operava nel campo della cultura. In breve la sezione da noi gestita era divenuta un circolo del cinema tra i più efficienti, soprattutto nella promozione dei film italiani più “difficili” (vedi “neorealisti”), che lì non godevano di alcun appoggio, al contrario offendevano il patriottismo di frontiera, che li accusava di “lavare i panni sporchi in piazza”.
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