Il peccato originale dell’industria culturale

Barbera, Abruzzese, Maite Carpio Bulgari, Emiliano Morreale, Roberto Cicutto e Domenico Sturabotti sono intervenuti sul tema del rapporto tra arte e denaro nell'incontro coordinato da Gianni Canova


TORINO – L’Expo 2015 di Milano ha scelto quello di una compagnia canadese, il Cirque du Soleil, come spettacolo di punta durante la manifestazione. Possibile che non ci fosse un lavoro italiano di qualità a rappresentarci? La provocazione la lancia Roberto Cicutto, ad del Luce, durante il dibattito organizzato al Festival di Torino dalla rivista 8 ½ sul tema: “Fra miserabilismo e mecenatismo – Esiste in Italia l’industria culturale?”. L’argomento ispira la copertina del numero 17 del magazine, a novembre nelle librerie, in cui si fronteggiano due maschi a torso nudo, uno dalla pancia prominente, l’altro in perfetta forma.

E’ stato il direttore della rivista Gianni Canova a coordinare il dibattito torinese su una questione che in Italia viene quasi rimossa. Segno anche questo di una certa ritrosia a mescolare cultura e mercato, arte e denaro. Alberto Barbera, direttore del Museo del Cinema, ha ricordato come la domanda posta da 8 ½ sia decisiva, oggi più che mai vista la contingenza che stiamo vivendo, anche se la crisi sembra essere endemica nel cinema italiano. “Ma adesso assume caratteristiche ancor più vistose, in seguito alla rivoluzione digitale che ha cambiato il modo di concepire, realizzare e produrre. È mai esistita in Italia un’industria culturale? Forse negli anni ’60 ci siamo andati vicini, con la capacità di far coesistere il cinema popolare e quello d’autore, quando il cinema italiano era la seconda industria al mondo. Ma è durato molto poco e l’avvento delle tv private ha spazzato via tutto. La produzione artistica è stata vista come frutto di mecenatismo e sostegno pubblico. Senza considerare che il cinema è sempre stato arte ma anche industria. Ora ci vuole un salto di qualità e una legge di sistema”.

Per Gianni Canova il problema è culturale oltre che politico. “L’aggettivo commerciale associato a qualsiasi elemento culturale è vissuto da noi come un insulto. La qualità e la quantità sembrano inconciliabili, la lezione di Walter Benjamin resta inascoltata e continuiamo ad ancorarci al pregiudizio romantico. Ma oggi non si può più pensare alla cultura come a un panda in via d’estinzione che vada assistito”. È ancora Roberto Cicutto a ricordare come molto dipenda dalla scarsa consapevolezza delle risorse a nostra disposizione, sicuramente molto più ingenti che altrove ma spesso sottovalutate o mal comunicate. “Abbiamo dato per scontato che il patrimonio ce l’avevamo e l’abbiamo dilapidato. La nostra malattia è dare per scontato che siamo pieni di tutto, lo facciamo anche con il turismo”. E non sappiamo mettere a frutto la nostra storia. “Una società coreana che ha girato un film su Romeo e Giulietta, ha preteso di realizzarlo proprio a Verona perché erano già stati venduti 800mila tour nei luoghi del dramma scespiriano e non si potevano deludere i clienti”.

Maite Carpio Bulgari, consigliera d’amministrazione del Luce, ha portato una interessante testimonianza dal mondo del mecenatismo, a cui appartiene con convinzione. “Al primo Forum internazionale della filantropia che si è tenuto in Vaticano abbiamo analizzato i risultati di una ricerca dell’Eurisko che ha intervistato i grandi donatori di tutto il mondo. Mentre all’estero le motivazioni per donare erano la responsabilità di ridare alla società quello che avevano ricevuto e il riconoscimento che sarebbe venuto dalla società al mecenate, in Italia c’era diffidenza a farsi riconoscere, si preferiva restare nell’ombra: se lo faccio penseranno che ho qualcosa da nascondere o che non voglio pagare le tasse”. E questo nonostante il mecenatismo sia nato proprio nel nostro paese. “Ora – prosegue Maite Bulgari – dopo il decreto di Dario Franceschini il ruolo è più riconosciuto, ma resta ancora molto da fare. Senza le risorse economiche dei privati non c’è cultura e pensarla in termini di fondi pubblici è irragionevole. Ma i fondi possono venire anche dal crowdfunding, attraverso il mecenatismo della moltitudine. Si arriva a cifre enormi per la produzione dal basso, basta che ci sia una forte motivazione e un senso di comunità”.

Per il sociologo Alberto Abruzzese “il modello di industria culturale nel cinema è e resta Hollywood. Negli anni ’60/70 si erano create in Italia le premesse per la nascita di un’industria in cui sul capitale del neorealismo si innestava la commedia all’italiana, ma non si è concretizzata. Ora dobbiamo fare un salto di paradigma. Dalla riproducibilità tecnica attraverso i linguaggi digitali e le reti stiamo entrando in una dimensione diversa. Bisogna riuscire a pensare al denaro e alla tecnica senza diffidenza, e poi un’industria culturale non dovrebbe avere una nazionalità. Anche il critico Emiliano Morreale, conservatore della Cineteca Nazionale, fa iniziare il discorso della mancata nascita dell’industria culturale dal neorealismo, quasi un peccato originale. “Quei film non li andava a vedere nessuno, ma portarono l’immagine dell’Italia all’estero. I consumi culturali attuali sono differenziati, i generi non esistono più, i divi non esistono più, Clooney è famoso ma non porta la gente al cinema. Si può parlare di tanti pubblici d’èlite, non di cultura popolare. Il giovane favoloso è un film popolare? Non lo definiremmo tale, eppure sta facendo 6 milioni e mezzo di incasso. L’assistenzialismo ha bruciato mille miliardi e ha viziato un sistema e un immaginario. Lo scontiamo ancora adesso. E poi in Italia nessuno legge, ma tutti scrivono, nessuno va al cinema ma tutti vogliono far i filmaker. Allora mi chiedo, provocatoriamente, servono davvero i consumi culturali? Davvero diventiamo migliori se guardiamo più film o leggiamo più libri? La cura dimagrante evocata dalla copertina di 8 ½ forse dovrebbe rivolgersi anche al mondo dei consumi”. Infine Domenico Sturabotti direttore di Symbola, Fondazione per le qualità italiane, nata nel 2005 con l’obiettivo di promuovere un nuovo modello di sviluppo orientato alla qualità, interviene per suggerire la necessità di un rinnovamento della cultura in termini anche di vendibilità prendendo esempio dalla manifattura, “occorre pensare prodotti nuovi per un mercato qualitativo e ragionare con una logica industriale, cosa che in Italia raramente si fa”.

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