Nella vita di ogni amante del cinema esistono tre diverse stagioni legate a Mary Poppins, il film di debutto di Julie Andrews diretto nel 1964 da Robert Stevenson (debuttò il 27 agosto) e fortissimamente voluto dal produttore Walt Disney, vincitore di 5 Oscar su 13 nomination. C’è il tempo dell’innamoramento quando si è bambini e si scopre il film a intervalli regolari ogni volta che la Disney lo riedita per celebrazioni varie; c’è il tempo dell’adolescenza in cui lo si odia per lo smielato e zuccheroso romanticismo sottolineato dalle musiche dei fratelli Sherman. Infine c’è il tempo della maturità in cui – se si è in buona fede – bisogna riconoscere che resta uno dei migliori musical della sua epoca e certamente un capolavoro antesignano della tecnica doppia tra animazione e live action. Naturalmente ognuna delle tre categorie vanta testardi assertori (e detrattori) a prescindere e certamente il film ha fatto il suo tempo agli occhi dei ragazzini di oggi, nonostante un goffo tentativo di aggiornamento affidato dalla Disney nel 2018 al veterano Rob Marshall con Emily Blunt nei panni dell’istitutrice volante col titolo Mary Poppins Returns.
Il perché di questo presunto scollamento generazionale è intrinseco allo schema originale della storia: all’origine c’è un romanzetto per ragazzi del 1934, scritto dall’australiana P.L. Travers (alias Helen Lyndon Goff), baciato dalla fortuna e serializzato in sei capitoli successivi, ultimo dei quali pubblicato nel 1988. Rispetto al primo romanzo, la sceneggiatura voluta da Big Walt e osteggiata fino all’ultimo dalla scrittrice, riporta indietro le lancette del tempo all’epoca della Londra edoardiana, genialmente dipinta nei fondali da Carroll Clark e dalla formidabile squadra degli animatori negli studi di Burbank. Per ragazzi che ignorano l’esistenza dei Ragazzi della Via Paal e a malapena si accostano alla serialità avventurosa di Harry Potter, il mondo dei figli irrequieti della famiglia Banks rischia di apparire terribilmente lontano. Eppure Mary Poppins continua ad esercitare il fascino di quelle Supernova che mandano ancora luce anche dopo essere implose per sempre negli spazi del firmamento. Qual è quindi il segreto della pozione magica che ne fa comunque un evergreen salutato così dalla rivista “Time”: “I set sono esuberanti, le canzoni ben ritmate, lo scenario spiritoso, ma impeccabilmente sentimentale e il cast di supporto è perfetto”? E’ una sintesi impeccabilmente anglosassone che, nella sua semplicità, tocca tutte le corde migliori. Manca soltanto una speciale nota di merito al coraggio della protagonista e alla testardaggine del produttore-demiurgo.
Cominciamo dall’inizio: leggenda vuole che fosse la figlia piccola di Disney, Diane, a innamorarsi del romanzo facendo giurare al padre che, prima o poi, l’avrebbe adattato per lo schermo. Come si racconta in Saving M. Banks (2013) la guerra tra Walt e la Travers durò oltre vent’anni, prima che la riottosa australiana cedesse, in capo a mille cavilli tra l’esilarante (non voleva che ci fosse una nota di rosso nei fondali) e il sostanziale (detestava le animazioni che sono invece una ragione del successo). Specie per il co-protagonista Dick Van Dyke (Bert) che canta e balla tra allegri pinguini, ombrelli volanti, giardini segreti e canne fumarie. Quanto a Julie Andrews – che accettò la parte per ripicca dopo che Jack Warner le preferì Audrey Hepburn in My Fair Lady – fece aspettare la produzione fino a gravidanza finita pur avendo firmato quando era incinta di tre mesi, ma seppe reggere la fatica del set con impavida disponibilità per dimostrare che era meglio di Angela Lansbury e Bette Davis, contattate per la parte. Basterebbe risentirla cantare e sedurre, con piglio severo e sbarazzino insieme, i piccoli Jane e Michael, per capire quanto avesse visto lungo Disney che aveva notato a teatro la ventisettenne debuttante alle prese col musical, proprio My Fair Lady. Julie Andrews è forse la diva più sottovalutata dell’epoca d’oro di Hollywood: voce argentina fino alle note più alte (una voce a quattro ottave), sicurezza da ballerina, impeccabile nel reggere il primo piano, a suo agio nelle trasformazioni del personaggio (ne avrebbe dato conferma esaltante in Victor Victoria), inglese fin nelle ossa ma capace di un sorriso all’americana. Il suo debutto le valse a colpo sicuro l’Oscar per la migliore attrice e lei si confermò un anno dopo col secondo Golden Globe consecutivo per “Tutti insieme appassionatamente”.
La vera genialità della sceneggiatura – rispetto al testo originale – sta proprio nel carattere della protagonista e nella sua perfetta empatia sia col suo “doppio” Bert che con i due ragazzini messi in riga da impeccabile tata: non è protettiva come la Nana di Peter Pan – anzi li sfida a osare -; non è romantica come Maria in Tutti insieme appassionatamente; è incredibilmente moderna nel suo incedere a Via dei Ciliegi 17 tenendo testa con astuzia e ingenua seduzione al serioso bancario Mr. Banks, ma coltiva un lato scopertamente infantile che ci riporta tutti, al buio in sala, a ciò che eravamo e avremmo voluto essere. Intorno a lei tutto il copione si muove come un oliato meccanismo a orologeria in cui perfino i “cattivi” – i banchieri Dawes padre e figlio – hanno il loro riscatto sentimentale che ripristina ordine e sorriso a casa Banks. Non sarà il caso di raccontarvi ancora la storia che tutti ricordano, ma i segni della fiaba sono evidenti, affidati a personaggi secondari come l’ammiraglio Boom col suo cannone segnatempo, agli spazzacamini capeggiati da Bert, ai pinguini con cui si prende il the.
Di fatto, abbiamo ben presente che il tempo di Mary Poppins è regolato dal soffio del vento: arriva quando è il momento di spazzar via tutte le aspiranti istitutrici convocate dal bancario George e da sua moglie, la suffragetta Winifred; torna a soffiare quando la supertata ha svolto il suo compito ed è tempo di veder crescere Jane e Michael. Lo schema corrisponde classicamente all’idea del “passaggio della Linea d’Ombra” caro a Walt Disney e alle sue volontà pedagogiche, ma è rivitalizzato da una modernità che soffia a sua volta forte. Non sarà un caso che la Londra d’inizio secolo di Mary Poppins – la stessa di Peter Pan – si animi sullo schermo proprio mentre nella Londra moderna soffiava il vento di Mary Quant e di quella “Londra canterina” che rovesciava come un guanto tradizioni e convenzioni al ritmo incalzante dei Fab Four di Liverpool. Di certo il successo del film fu un soffio benefico per il produttore-demiurgo.
Costato meno di sei milioni di dollari, Mary Poppins vide la luce il 27 agosto 1964 con una spettacolare prima a Los Angeles in cui si intrufolò – non era stata invitata – la Travers. Anche mentre tutti alzavano i calici per festeggiare il successo, l’arzilla signora tentò di imporre a Walt di sopprimere le parti in animazione. Lui rispose “Cara Pamela, la nave ormai è salpata” e ne se andò lasciandola con un palmo di naso. Il film alla fine guadagnò più di cento milioni di dollari (14 solo in Gran Bretagna) e permise al produttore di comprare i terreni in Florida per costruire Disney World. Forse, se lo sapessero, i ragazzi di oggi, avrebbero una buona ragione per amare lo splendido musical e tornerebbero a cantare Basta un poco di zucchero, Zuccheroso? Certamente sì, ma così orecchiabile e così capace di sintetizzare la ragion d’essere della storia che può andar bene così.
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