Mi ronzano ancora nelle orecchie le perplessità dei colleghi all’uscita da una proiezione privata di L’amore probabilmente di Giuseppe Bertolucci (vedi la nostra intervista), al “Quattro Fontane”, in una calda, tranquilla mattina d’agosto. Non credo che le cose saranno andate diversamente alla Mostra.
Del resto, non si vede perché su una materia così povera di valore assoluto, quale è il film, ci dovrebbe essere di norma una maggioranza schiacciante di giudizi unanimi. La prima divergenza nasce dalla diversità di letture che un film offre, talvolta a dispetto dello stesso autore. Nel caso in questione ho interpretato L’amore probabilmente, come un lungo, gigantesco provino realizzato su una giovane autrice, Sonia Bergamasco, dal talento mostruoso (di cui avevo già avuto un saggio in Voci, il film tuttora inedito di Franco Giraldi, che in questi giorni viene presentato al Festival di Montreal). Forse non era questa la sua intenzione, forse Bertolucci si adonterebbe, se gli dicessi che della parvenza di storia, che egli ha costruito intorno a ciò che ho chiamato il provino, meno me ne può importare. Quello che mi ha stimolato è vedere le infinite espressioni del volto della Bergamasco, le varie tonalità della sua voce, il suo modo di affrontare il canto (sì, perché la ragazza ha avuto un’educazione musicale e si cimenta addirittura con Mozart, come se si trovasse sul palcoscenico di un teatro d’opera).
Oltretutto, lo dice anche Mariangela Melato, nel ruolo di un’insegnante di recitazione, in una delle scene iniziali del film: “Nora non esiste, non esisterebbe neppure Ibsen, se non ci fossi tu, Sonia, a fingere di essere Nora, perché la rappresentazione è finzione e la finzione è menzogna e l’attore che non sa mentire è meglio che cambi mestiere”. Come dire che nulla esisterebbe, né lo spettacolo teatrale, né lo spettacolo cinematografico, in assenza dell’attore che gli dà vita. Per paradosso, questo film così “autoriale”, così sperimentale, al punto che mi ha invitato a sorvolare sulla trama, a disinteressarmi della vicenda, pare riallacciarsi, seguendo però una via diametralmente opposta a quella abituale, al cinema di Hollywood degli anni Trenta, quando l’attore era tutto e il regista era niente, quando si diceva “un film di Greta Garbo” e non un film di Clarence Brown o di chi altro stesse dietro la cinepresa.
D’altronde Giuseppe Bertolucci ha sempre professato nei suoi film una profonda devozione per l’attore. L’amore probabilmente esprime nella maniera più radicale questa sua ormai antica devozione, fra l’altro del tutto anomala nel cinema italiano, dove l’attore raramente è stato trattato col dovuto rispetto. E qui chiamo in causa i maggiori maestri del cinema italiano: da Rossellini che un giorno mi confessò – lui che per un certo periodo fu il compagno di Anna Magnani eppoi il marito di Ingrid Bergman – che di attori ci capiva poco, a De Sica che s’infastidiva non poco quando gli attori gli chiedevano di approfondire il loro ruolo, poiché gli bastava che ripetessero per filo e per segno battuta e scena, così come gliel’aveva lui stesso recitate; da Fellini, che ai suoi attori faceva ripetere non importa cosa, magari la tavola pitagorica, tanto – diceva – al doppiaggio si sistema tutto, a Germi che aborriva la presa diretta, poiché lo avrebbe distratto dalla cura delle immagini. Dall’altra parte della barricata abbiamo avuto non a caso gli attori “presi dalla strada” e le attrici prese dai concorsi di bellezza, che hanno imparato il mestiere facendolo, sino a vincere l’Oscar, come accadde a Sofia Loren. E, perciò che riguarda gli attori maschi, non posso dimenticare il produttore Carlo Ponti, il quale, con la sua consueta, brutale franchezza, un giorno mi disse che l’attore in Italia è condannato a fare il buffone. Con l’unica eccezione di Amedeo Nazzari, aggiunse. Quando me lo disse non era ancora sorto l’astro di Gian Maria Volontè.
Storie d’altri tempi comunque: quando le attrici realmente professioniste, per trovare lavoro, dovevano emigrare in Francia, come accadeva a Lea Massari. Storie d’altri tempi, poiché è nata una nuova generazione di attori e di attrici, sulla cui professionalità non si discute. Fermandomi alle attrici, ne cito le prime diciotto che mi vengono in mente: Francesca Antonelli, Giulia Boschi, Nicoletta Braschi, Valeria Bruno Tedeschi, Chiara Caselli, Lucrezia Lante Della Rovere, Barbara De Rossi, Giuliana De Sio, Sabrina Ferilli, Isabella Ferrari, Giovanna Mezzogiorno, Francesca Neri, Regina Orioli, Antonella Ponziani, Francesca Prandi, Elena Sofia Ricci, Amanda Sandrelli, Lina Sastri.
A costoro possiamo ora aggiungere Sonia Bergamasco e Rosalinda Celentano. Per avere un parco attrici degno di questo nome abbiamo dovuto attendere che il cinema italiano entrasse in crisi. È paradossale ma è così. Alcune delle attrici che ho nominate, stanno già evidenziando le prime rughe, senza aver raggiunto ancora una effettiva popolarità. Altre l’hanno cercata (e talvolta trovata) in televisione o sul palcoscenico del teatro Sistina. Secondo logica, la “primavera del cinema italiano, se si rivelerà un fenomeno concreto. dovrebbe servire anche a questo: a ridare ai nostri attori e alle nostre attrici quel prestigio nazionale e internazionale che arrise un tempo a coloro che appresero il mestiere facendolo.
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