IL GATTOPARDO 2001


Il Gattopardo Lo splendore figurativo tipico di tutte le opere di Luchino Visconti diviene spesso un problema per lo spettatore comune che, abbagliato dalla resa visiva di determinate situazioni o eventi, non si sofferma a sufficienza sui contenuti che vengono, comunque, comunicati. Di fronte a sequenze di grande impatto, in cui la ricostruzione storica tocca vertici insuperati, la nostra attenzione al dettaglio narrativo viene spesso a mancare e, incantati dal movimento di luci e colori che riattualizzano per noi un passato perduto, finiamo per assumere, purtroppo, la posizione di osservatori passivi che guardano senza capire fino in fondo.
Ciò è forse ancor più evidente in certe sequenze de Il gattopardo dove alcuni accadimenti sembrano, a priori, avere scarsa importanza per lo spettatore come per il critico. Si pensi alla splendida sequenza della battaglia di Palermo, per rendersene conto.
Completamente assorbiti dalla resa realistica della messa in scena, e convinti della marginalità degli eventi rappresentati ai fini del racconto, che è tutto incentrato sulla figura del principe di Salina, dimentichiamo spesso di cercare di capire cosa sta accadendo sullo schermo. A parte il triste assolo del pianto di una donna che si imprime indelebilmente nella memoria, quel che si dipana sotto il nostro sguardo è, essenzialmente, confusione, polvere, rumore.
La sequenza si apre con la carica delle Camicie rosse, poi, per un attimo, con un incongruo cambiamento di punto di vista, vediamo l’esecuzione di alcuni patrioti, quindi la fuga inutile del sindaco della città, prima della sua cattura ed esecuzione. Una fanfara militare aveva aperto la scena, la chiude un inaspettato ritorno dei borbonici che sembrano riconquistare il terreno perduto. In colonna sonora un vociare confuso, grida, colpi di cannone, spari.
Il Gattopardo Qual è l’elemento straordinariamente nuovo di questa sequenza tale da far sì che essa abbia addirittura qualcosa di rivoluzionario? Essenzialmente uno: non esiste un punto di vista univoco nel quale lo spettatore possa immedesimarsi. L’evento “guerra” viene reso come assoluta confusione di corpi e persone e né bandiere, né uniformi aiutano a comprendere meglio gli eventi.
Niente a che vedere con le battaglie ordinate cui il cinema ci aveva abituati fino a quel momento (e che continueranno praticamente fino ai giorni nostri). Perché con questa soluzione Visconti vuole sancire prima di tutto l’impossibilità della macchina da presa di dare un ordine ed un senso al mondo. Cogliere la realtà significa, per il regista, farsi anche carico di tutte le contraddizioni che essa si porta dietro. La macchina da presa viscontiana si arrende di fronte all’immane catastrofe della guerra, nella consapevolezza che riprodurla equivale a non capirla.
Quanta attualità, allora, in questo gesto finale di resa. Proprio ora che si moltiplicano sui nostri schermi televisivi immagini di questo ultimo conflitto in cui non vediamo altro che schermi neri illuminati da qualche sporadico lampo luminoso prodotto da chissà cosa. Immagini che sono l’estrema sintesi della confusione viscontiana che ci ricordano, ancora una volta, che cercare di mostrare tutto e sempre equivale a non mostrare nulla. Perché le guerre, quelle vere, (e ce l’aveva già detto, in fondo, Visconti, anche se in maniera indiretta) non le abbiamo mai viste per davvero.

autore
12 Ottobre 2001

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