Sarà dedicato alla regista ungherese Judit Elek l’omaggio in programma alla 65a edizione del Festival dei Popoli, il festival internazionale del film documentario, che si terrà a Firenze dal 2 al 10 novembre per la direzione artistica di Alessandro Stellino e organizzativa di Claudia Maci. La retrospettiva, la prima in Italia dedicata alla cineasta, nasce dalla collaborazione tra il Festival dei Popoli e Calliope Arts Foundation sul progetto triennale “Women Trailblazers in Documentary Cinema”, volto alla riscoperta e alla celebrazione di registe il cui lavoro sia stato sottovalutato o dimenticato nel corso degli anni.
Il Festival dei Popoli e Calliope Arts Foundation – fondazione impegnata nella promozione e nella valorizzazione del contributo delle donne alle arti visive, alla letteratura, alla scienza, alla musica e alla storia sociale – porteranno a Firenze una delle registe più importanti d’Europa. Judit Elek sarà a Firenze per incontrare il pubblico nel corso di una masterclass e per presentare i suoi film, tutti in versione restaurata dal Film Archive del National Film Institute of Hungary, opere che hanno raccontato il suo paese lungo il corso della seconda metà del ‘900, dall’Olocausto alla guerra fredda, dalla vita durante il regime sovietico all’esplosione del sessantotto.
Judit Elek è nata a Budapest nel 1937. Da bambina è sopravvissuta all’Olocausto e alla guerra in un ghetto, a 18 anni ha partecipato all’insurrezione del 1956 a Budapest e nel 1968 si trovava a Parigi nel periodo delle proteste studentesche, tutti eventi storici che sono stati determinanti nell’indirizzare il suo percorso artistico. Nel 1961 si è diplomata all’Accademia di Arte Drammatica e Cinematografica, parte di un gruppo che ha poi costituito il nucleo centrale del Balázs Béla Studio, laboratorio sperimentale giovanile in linea con le tendenze della Nouvelle Vague europea. I primi lavori di Judit Elek sono analisi liriche della solitudine in cui stilizza la spontaneità del cinema diretto per farne “poesia in movimento”. Encounter (1963) è stato il primo film del cinema diretto ungherese, con attori non protagonisti e dialoghi improvvisati. Inhabitants of Castles (1966) e il film in due parti How Long Does a Man Live? (1967) sono documentari in cui la regista traccia un ritratto sociale della vita umana nella sua interezza, accostando la sorte dell’anziano operaio solitario sulla soglia della pensione e quella del giovane apprendista che lo sostituirà (presentato a Cannes nel 1968, il film vinse il Gran Premio a Oberhausen e il Premio della Giuria a Locarno). I suoi film successivi, i documentari A Hungarian Village (1972) e A Commonplace Story (1975) sono stati realizzati nel corso di cinque anni in un villaggio minerario: tracciando il destino e le relazioni di due ragazze che sognano la fuga, presentano un articolato reportage psicologico a 360 gradi sull’Ungheria rurale del “socialismo in costruzione”, sullo stato di amarezza dei contadini ridotti a proletari e sull’intricato sistema di pregiudizi che li circonda. L’autrice ha poi inaugurato il suo “periodo ebraico” con Memories of River, realizzato tra il 1987 e il 1989 a partire dai documenti del famigerato processo per diffamazione di sangue di Tiszaeszlár, quando gli zatterieri ebrei furono accusati dell’omicidio di una cameriera scomparsa nel 1882. Il film ha vinto diversi premi in America e in Francia e l’ha portata a contatto con Elie Wiesel, insieme al quale ha girato il documentario To Speak the Unspeakable nel 1997. Quest’opera fondamentale per la memoria dell’Olocausto segue la vita dello scrittore premio Nobel per la pace fino ad Auschwitz e Buchenwald.
“Sono diventata regista – spiega la regista oggi 87enne – per poter raccontare quello che vedo intorno a me, quello che ho vissuto, quello che hanno vissuto i vecchi in questo piccolo paese in cui sembra sempre esserci un potere diverso da quello che la gente vorrebbe, idealmente giusto e buono, ma lo sopporta perché crede che ciò sia in qualche modo inevitabile. E io, come un Don Chisciotte al femminile, mi oppongo ai mulini a vento, non mi arrendo, e spero di morire così. E c’è poi un’altra motivazione: il fatto che dopo 60 anni di lavoro mi rendo conto che il mio film più vecchio è ancora vivo e ha un impatto sulle persone, se hanno l’opportunità di vederlo”.
(C.DA)
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