IL COMMENTO


A scorrere il programma del prossimo Festival di Cannes, il primo pensiero va alle baggianate più o meno uffíciali che si sono sentite e/o lette, durante il faticoso passaggio dei poteri a Venezia da Alberto Barbera a Moritz De Hadeln: bisogna riportare Venezia agli antichi fasti (quali?), voltare pagina, smettere di ridurla a una rassegna di film cinesi, iraniani, portoghesi, restituirla alla grande produzione hollywoodiana (come se in questi ultimi anni Hollywood non fosse stata presente anche oltre il necessario).
Ecco: mi domando cosa sarebbe accaduto se Barbera, o chi per lui, avesse presentato per Venezia l’odierno programma di Cannes, di quella Cannes che, secondo un luogo comune ben radicato, dovrebbe essere (ma non lo è da anni) la “vetrina dell’esistente”, del cinema che si vede, dei film che escono in 400 copie, occupando metà delle sale capaci d’influire sul mercato.
Provate a sostituire nella testata il nome di Cannes con quello di Venezia, leggete il programma e poi immaginate le reazioni di fronte alla sfilza di film, non solo cinesi, iraniani e portoghesi, ma anche siriani, palestinesi, libanesi, mauritani, tagiki, che il comunicato della direzione del festival segnala compiaciuta in calce alla lista. Cosa sarebbe successo? Si sarebbe gridato allo scandalo. E non sarebbe bastata l’inaugurazione con l’ultimo Woody Allen a smorzare i toni.
Woody Allen va bene, e dopo? Dove stanno i film di Hollywood? Non mi verrete a dire che la ”Mecca del Cinema” sia adeguatamente rappresentata da Paul Thomas Anderson e Alexander Payne (a proposito, “chi è costui?” domanderebbero i commentatori ufficiali, le autorità (in)competenti ignorando che il suo film precedente, Election, visto in Italia da non più di mille persone, risulta il più acclamato dalla critica nordamericana).
E gli italiani? Qui siamo alla provocazione, col film di Bellocchio (quello della “bestemmia di Stato” visto che lo distribuisce il Luce ed è stato considerato d’ “importanza culturale nazionale”) in concorso, col documentario di Francesca Comencini su Carlo Giuliani, coi nuovi materiali sul G8 di Genova, presentati alla Semaine de la Critique.
E, visto che non possiamo applicare oltre confine lo spoil system culturale che in Italia non da oggi è norma (altrimenti non sì capirebbe per quale motivo a Cannes i direttori cambiano ogni vent’anni, mentre a Venezia è grasso che cola se durano in carica soltanto quattro, talchè la Mostra dopo settant’anni di vita sembra tuttora in rodaggio), visto che – come dicevamo – non possiamo permetterci d’influire sulle loro decisioni, si dirà che il programma di Cannes è il colpo di coda di quell’animosità che ha contraddistinto i francesi nel giudicare l’attuale situazione politica italiana.
Sarà anche vero, ma a conti fatti il cinema italiano raccoglie qualche beneficio da tale animosità. Se aggiungiamo ai film italiani, che abbiamo, elencati, gli altri due (L’imbalsamatore di Matteo Garrone e Angela di Roberta Torre) accolti dalla Quinzaine des réalisateurs e il Ligabue che accompagnerà la Comencini alla Semaine, dobbiamo concludere che da anni non si vedevano tanti film italiani a Cannes e soprattutto film del nuovo cinema italiano, non solo quello dei giovani e vecchi “maestri”.
Vuol dire che la diffidenza francese verso il nostro cinema sta scemando. Un segnale era già giunto dal numero dì marzo dei “Cahiers”. E poco importa se il titolo delle nove pagine di “chronique italienne” suonava “L’offensive Berlusconi dans le monde du cinéma”.
Del resto passare per inviso alle autorità ha sempre giovato alla proposta del cinema italiano (e non soltanto italiano).

26 Aprile 2002

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