I suicidi di Olias Barco, tra Ferreri e il punk


Un film punk. E’ così che Piera Detassis, direttore artistico del Festival Internazionale del Film di Roma, ama definire Kill me please, il film di Olias Barco vincitore del Marc’Aurelio d’oro all’ultima edizione della kermesse capitolina.
La pellicola, una commedia nera sui temi dell’eutanasia, della depressione e del suicidio, sta ora per raggiungere le sale, il 14 gennaio, distribuita da Archibald, e preceduta da una gremita anteprima al cinema Eden di Roma, dove per l’occasione si radunano il regista e i protagonisti principali Virgile Bramly – anche cosceneggiatore – e Zazie da Paris, accompagnata ancora, dopo gli exploit festivalieri, dalla sua inconfondibile verve.

“In realtà – specifica il regista di origini spagnole, nato in Francia e residente in Belgio – io stesso ho usato il termine ‘punk’ per definire il produttore Vincent Tavier, mente dietro a opere molto radicali come Il cameraman e l’assassino e Panique au village. Per me Vincent è l’ultimo punk esistente in Europa. Chissà, forse potremmo parlare di un nuovo modo di fare cinema, di un nuovo movimento, come lo ha definito un famoso critico. Ma per me era molto ‘punk’ anche la giuria del Festival di Roma, costituita da professionisti di diversa provenienza ed estrazione – registi, critici d’arte e di cinema, scrittori – che hanno capito lo spirito del film. Certo – scherza poi Barco – fare un film punk completamente privo di musica è una bella soddisfazione”.

In effetti, la totale mancanza di colonna sonora è una delle cifre stilistiche di questo piccolo gioiello noir realizzato in un castello sui monti svizzeri, a bassissimo budget, in bianco e nero, con attori semisconosciuti e in tre sole settimane di riprese. L’unico commento sonoro è una toccante versione della Marsigliese, cantata con fatica dall’intensa Zazie, interprete di una soprano che ha perso la voce in seguito a un tumore ai polmoni. “In fondo – commenta Fabio Ferzetti che modera l’incontro – la Marsigliese è il primo pezzo punk della storia”.

Nel film, che alterna sapientemente toni umoristici e grotteschi mescolando la commedia, il dramma e perfino un po’ di surreale “action”, un medico all’avanguardia (Aurelien Recoing ) si adopera per dare un senso al suicidio con una struttura terapeutica dove darsi la morte non sia più considerata una disgrazia, ma un atto consapevole svolto con assistenza medica. La sua clinica esclusiva richiama l’attenzione di un gruppo di strani personaggi, accomunati dal desiderio di morire. Finché un giorno, un imprevisto attacco dall’esterno rovescia gli equilibri, trasformando la volontà di farla finita in istinto alla sopravvivenza, anche con conseguenze estreme.

Spontaneo il riferimento a La grande abbuffata di Ferreri, citato come fonte d’ispirazione dallo stesso Barco: “Il cinema italiano è stato, come quello belga di cui è esponente Tavier, un grande laboratorio di sperimentazione. Ferreri ad esempio affrontava argomenti seri, impegnati, politici. Era l’equivalente della nouvelle vague. Mi chiedo se oggi, in Italia, sarebbe possibile fare un film così”.
E se lo chiede per un motivo specifico, Barco, dato che ha intenzione di ambientare e girare qui da noi il suo prossimo film, dal titolo Roma Victor, sui rapporti tra sesso e potere nel nostro paese, ancora con Zazie de Paris.

Lei, dotata di una carica debordante, è stata coach in film importanti come Inglorious Basterds di Tarantino: “Me l’ha presentata lo sceneggiatore Stéphane Malandrin, dicendomi che era straordinaria e la dovevo conoscere – racconta il regista – All’inizio, lo confesso, ero un po’ perplesso per via del suo nome, ma poi mi ha conquistato”.

“Scusa – risponde lei giocosamente – ma se c’è una che si chiama Cécile de France, perché non ci può essere una Zazie de Paris? Il film è stata per me soprattutto una bellissima esperienza – continua l’attrice – e una storia di amicizia, anche se in quel castello faceva un freddo cane. Il problema è come rendere popolare una storia così, ma credo che uno dei suoi punti di forza sia un concetto che ci accomuna tutti. Ovvero, se hai deciso di farla finita, va bene, può funzionare. Ma anche in quel caso, se qualcun altro cerca di ucciderti, o violentarti, l’istinto di sopravvivenza sarà sempre più forte della tua volontà di morire”.

“Io a suicidarmi non ci ho mai provato – fa eco ironicamente Barco – ma ne ho parlato spesso proprio per esorcizzare la questione. Amo troppo la vita, ma conosco persone che hanno compiuto l’insano gesto proprio per questo motivo. Vedremo…Piuttosto è vero che la mia vita è tutta un suicidio. Ho fatto questo film perché sono attirato dai suicidi di massa, come quelli che accadono in Giappone. Poi ho scoperto questa clinica Dignitas, in Svizzera, dove veramente il dottor Minelli garantisce ai pazienti il suicidio medicalmente assistito”.

“Certo abbiamo un po’ esasperato la questione – racconta il cosceneggiatore Malandrin – cercando di capire cosa accadrebbe se la gente potesse veramente comprarsi la propria morte. Magari nel 2050 sarà pieno di cliniche così. E’ un film ‘avanti’. Il titolo originale era proprio Dignitas, ma l’abbiamo cambiato perché Minelli è anche un avvocato, e certamente ci avrebbe fatto causa. Ma il monologo sui costi del suicidio per la società è basato su uno studio che esiste davvero, i dati riportati nel film rispondono tutti a verità. Le statistiche dicono che i francesi sono una delle popolazioni più depresse al mondo. Per noi l’idea di controllare la morte è folle, così come l’idea di farci sopra speculazione ed economia. La morte è incontrollabile, e abbiamo sfruttato questo suo aspetto per fare, paradossalmente, un film vivo. Erano incontrollabili anche i nostri attori, la nostra sceneggiatura”.
“Il film è cambiato mille volte mentre lo facevamo – conferma Barco – anzi credo sia cambiato anche stasera, mentre lo proiettavamo”.

Zazie de Paris conclude con un simpatico “fate l’amore, non il suicidio”, mentre Piera Detassis dedica la proiezione alla critica Lietta Tornabuoni, scomparsa lo stesso giorno a Roma. Pochi giorni fa aveva consegnato alla redazione de ‘L’espresso’ la sua ultima recensione, dedicata proprio a Kill Me Please. “Una pellicola che – ha scritto – affronta l’argomento rimosso per eccellenza della nostra epoca, la morte”.

autore
12 Gennaio 2011

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