CANNES – Un primo piano su un volto femminile, una fanciulla nera e spaventata risponde alle domande di un interrogatorio. Lei è Lokita (Joely Mbundu), sbarcata nel Sud d’Italia dall’Africa, e adesso in Belgio “alla ricerca dell’identità”, è infatti affannosa l’attesa e la ricerca di un documento.
Nella sua quotidianità, Tori (Pablo Schils), un ragazzino, poco che più che un bambino, che vive con Lokita un’amicizia prossima alla fratellanza, loro si dichiarano “fratello e sorella”, per il comune viaggio in solitaria verso l’Europa, per cercare di garantirsi un sicuro esilio e così una conformità, che soprattutto lei fatica a farsi riconoscere formalmente.
Tori e Lokita – titolo del film diretto da Jean-Pierre e Luc Dardenne, in Concorso – sono complici, giocano insieme e lavorano insieme, in un ristorante, fanno consegne a domicilio: pizza, in apparenza, droga, in realtà.
Luc Dardenne spiega: “a noi interessava raccontare un’amicizia. Il contesto era ostile ma abbiamo cercato di creare una coppia in un ambito di denuncia: quando le persone sono lontane dal proprio Paese vivono condizioni che le rendono disperate, così è per Lokita, l’insicurezza la rende stressata, e l’amicizia serve a far sentire meno persi e soli”. Continua il fratello precisando: “abbiamo visitato un centro minori, non avevamo un’idea precisa ma sapevamo di voler fare un film con protagonisti dei bambini, volevamo che la verità passasse dagli sguardi dei bambini. Poi abbiamo conosciuto anche una storia di famiglia africana, e man mano si sono sommate le idee. I bambini rappresentano il futuro, il futuro possibile, e noi volevamo per questo lavorare con loro, e che l’amicizia fosse qualcosa capace di non lasciarli soli al mondo”.
Le giornate di Tori e Lokita sono scandite dalla musica di Angelo Branduardi, quella di Alla fiera dell’Est, perché – come spiega Lokita in una delle prime sequenze del film – è stata la prima canzone sentita appena sbarcati e, come fosse una ninna nanna rassicurante, la colonna sonora della loro salvezza: loro continuano a cantarla o si sente suonare a ogni squillo del cellulare di lei, che l’ha impostata come suoneria.
Per Jean-Pierre Dardenne, “questa canzone italiana racconta una storia… Come Lokita quando è sbarcata a Lampedusa, io stesso ho usato questa canzone per imparare le parole italiane e così abbiamo fatto nel film. Non c’è musica nel film, era superflua: non c’era urgenza o bisogno di musica. La canzone e le parole bastavano ai personaggi e la canzone esplicita l’idea di lontananza, d’esilio”.
“Lei era prigionera del sistema e, della storia, abbiamo molto amato che Tori si desse da fare per liberarla”, aggiunge Luc, cui fa seguito ancora il fratello: “Il movimento fisico dei personaggi era fondamentale, il loro continuo camminare era simbolico, un andare anche verso lo spettatore”. Infatti, conferma Luc Dardenne: “È stato un film molto dinamico e il dop è stato un po’ un architetto: abbiamo messo in scena qualcosa simile a una coreografia. È stato un film avventuroso e Tori sostiene questo dinamismo, per cercare di fronteggiare il dramma di Lokita” che brama la sua identità – tra telefonate a una mamma lontana a cui mandare denaro e forzate prestazioni sessuali per arrotondare qualche decina d’euro in più, finché non accetta, seppur infelice, di essere la giardiniera di una coltivazione illegale di cannabis, in un capanno fuori mano; avvincente è, in queste sequenze, l’intraprendenza di Tori, piccolino quanto iper energico e vivace d’intelletto, che s’adopera a suo rischio e pericolo per raggiungere quella “sorella” là isolata e che lui ben sa soffrire di attacchi di panico, somatizzazione di tutta la circostanza.
Eppure, nonostante la furbizia del ragazzino e la cautela d’entrambi, il criminale che gestisce il traffico li intercetta: qui comincia una breve, fiduciosa, fuga verso la libertà, non sinonimo di conquista dell’identità, a sua volta riflesso dell’esistenza dell’individuo in questa vita.
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