VENEZIA – Non c’è, Fuori Concorso a Venezia80, una sceneggiatura tanto vivace. È Hit Man di Richard Linklater – nei cinema italiani dal 27 giugno 2024 – la visione del Lido che strappa alla sala le risate più vere. Si vede, si sente: alla première in Sala Grande c’è un baccano genuino, la scarica di energia di mille persone costantemente sorprese. A fine visione si tira un sospiro. È assieme sollievo e divertimento, la sensazione di aver abbandonato sul posto accanto qualche peso di troppo.
Linklater sa come scrivere una commedia, ma mai come in Hit Man – almeno in tempi recenti – ha intessuto fila tanto eccezionali. In suo aiuto una storia vera, scoperta nel 2001 da un articolo del Texas Monthly e trasformata in film solo vent’anni dopo. Al centro l’atipico Gary Johnson (Glen Powell), professore di filosofia e psicologia: un uomo qualunque, persino troppo. Ha due gatti, una passione per gli uccelli e mangia da solo in un microscopico tavolo apparecchiato per uno. Poi, cambia tutto. Gary diventa Ron, sicario sotto copertura per la polizia. Un lavoro part-time che ne travolge l’esistenza.
Il compito è semplice: deve incontrare sotto mentite spoglie – sempre diverse, sempre originali – persone interessate a farne fuori altre, registrandone gli intenti per il tribunale. Gary impersona un killer ogni volta diverso, “quello che si aspettano”. Deve essere credibile, senza sbavature.”È la prima impressione quello che conta”. Ecco così parrucche e tatuaggi, lenti colorate e voci rauche, pettinature alla rinfusa e tinte: Gary si trasforma e, lentamente, in una danza tra Es e Ego, diventa personaggio.
Hit Man, che vive nel gioco divertito di un Glen Powell in stato di grazia, crede nel cinema come atto trasformativo. La metafora non è celata e – soprattutto – non pesa mai sul sincero divertimento che questa storia regala, è lì: sotto gli occhi dello spettatore piegato dalle risate per l’ennesimo trucco con cui Gary si finge il sicario perfetto. Il montaggio è vertigine, le interpretazioni ritmo, l’insieme travolgente.
Un uomo scopre di poter diventare altro, proiettando in sé identità opposte. “Facciamo come se”, dice Gary ai suoi studenti, “finché un giorno ti svegli e scopri che sei l’identità che fingevi di essere”. Gary, nei panni di Ron, incontra una donna (Adria Arjona) che vuole uccidere il marito. Se ne invaghisce e la convince ad abbandonare gli intenti omicidi, senza svestire però il ruolo del sicario che tanto sembra interessare a lei.
È possibile diventare criminali interpretandone uno? Domande da psicanalisti e cineasti: i primi per la teoria, i secondi per il collaudo. E così fa Linklater, che si diverte con il proprio protagonista a testare i limiti dell’identità. Incastrato in un gioco di personalità, la finzione si fa realtà e l’incastro si carica a pressione sino all’inevitabile scoppio.
“I sicari non esistono – racconta la voce fuori campo di Glenn – la gente ci crede perché li ha visti nelle fiction”. È un circo di maschere, di trucchi cinematografici che danzano coi personaggi interpretati da Glenn e realizzano una commedia con una spessa filigrana filosofica. Alla Woody Allen degli ultimi vent’anni (anche la colonna sonora ci ricorda l’altro maestro americano). Proprio come le molteplici identità di Gary, Hit Man alterna noir e thriller, dramma psicologico e dark comedy. Si veste “come se” e segue il suo personaggio in fondo al tunnel della finzione.
C’è una scena, sul finale, in cui Powell tiene in piedi due identità: parla con la voce di una (il coraggioso sicario Ron), ma resta sulla mimica dell’altra (l’impacciato Gary). Scene così, che consumano lo spettatore di ogni goccia di attenzione, caricano l’applauso con cui il film viene congedato. Ai titoli di coda non si muove nessuno: si esalano le ultime risate, qualcuno scrive agli amici. “Delizioso, la sala continua ad applaudire”. Sono film vivi, questi.