“I tempi sono maturi. Anche gli americani stanno facendo un film su Maria con Al Pacino e Jessica Lange (Mary Mother of Christ). Forse perché la fine delle ideologie e la crisi del mondo occidentale richiedono una profonda riflessione sulla fede”. In Tunisia, ai confini col deserto del Sahara e poi a Nord, verso l’Algeria, in una zona verde e piovosa, Guido Chiesa ha girato il suo quinto film, Io sono con te, che tra pochi giorni vedremo in concorso al Festival di Roma. Un film sorprendente, nella sua carriera di regista “politico”, che parla della gravidanza di Maria e dell’infanzia di Gesù, dai primi giorni di vita al momento in cui, a 12 anni, scappa di casa per tre giorni e va al Tempio. “Mi sono basato soprattutto sul Vangelo di Luca, quello che più racconta la figura di Maria”, ci spiega Chiesa, che parte da laico per recuperare una dimensione in cui la fede s’intreccia con la psicoanalisi senza dimenticare la passione civile. “Gli storici di un tempo non raccontavano mai l’infanzia di qualcuno, ma qui, nel Vangelo, si cela la narrazione di una relazione madre-figlio perfetta, tanto da condurre a Cristo. È un rapporto basato sulla fiducia e sull’amore e molto libero, che ho esplorato insieme a mia moglie Nicoletta Micheli, ispiratrice, nonché autrice del soggetto e co-sceneggiatrice con Filippo Kalomenidis“. Prodotto dalla Colorado, dalla Magda di Giovanni Saulini e Silvia Innocenzi e da Rai Cinema, Io sono con te è interpretato da attori tunisini (tra cui la giovanissima Nadia Khlifi nel ruolo di Maria) accanto a Carlo Cecchi, Giorgio Colangeli, Fabrizio Gifuni, Jerzy Stuhr, Ahmed Hafiene. In sala dal 19 novembre con Bolero.
Chiesa, come è arrivato dal “Partigiano Johnny” alla pedagogia di Maria?
Il punto di partenza di questo progetto è lo stesso del documentario Le pere di Adamo, che presentai qui al Festival di Roma, a Extra – L’Altro Cinema: la ragione da sola è insufficiente, non basta. Il partigiano Johnny è un personaggio di una razionalità spaventosa che finisce solo e si uccide. Nel mio film successivo, Lavorare con lentezza, entra una dimensione diversa, più umana, più fantasiosa: l’ironia e l’eros sono una fuga dal nichilismo che era il mio punto di partenza. Fondamentale è stata l’esperienza della paternità, la nascita dei miei tre figli e il mio rapporto con loro mi ha messo di fronte alla fallibilità del mio modello.
Il film, scritto con Nicoletta Micheli, che è la madre dei suoi tre figli, doveva intitolarsi “Let it be”.
È vero, come la famosa canzone dei Beatles, ovvero “lasciamo che le cose siano”. Uno degli spunti della nostra riflessione è stato il libro di Alice Miller, “Il bambino inascoltato”, dove l’autrice dice espressamente che la Sacra Famiglia contiene un modello pedagogico straordinario che purtroppo la Chiesa come istituzione non ha mai adottato. Nella cultura ebraica vigeva una pedagogia di obbedienza e punizione basata sul comandamento ‘Onora il padre e la madre’, mentre Gesù ha messo i bambini al centro di tutto. È lui che ha detto: “Chi dà scandalo ai bambini, deve legarsi una pietra al collo”. Giuseppe è stato partecipe di questo progetto e Maria ha accettato la sua gravidanza anomala come un dono di Dio proteggendo il nuovo nato nonostante tutto.
Un richiamo che può essere letto anche come un monito contro la pedofilia.
Sulla pedofilia Gesù ha detto cose così chiare che è inutile suggerire alla Chiesa cosa deve fare, però credo che il film potrebbe essere utile al dibattito sul tema del rispetto dei più piccoli. Noi tutti siamo stati bambini, ma la Chiesa, come istituzione, si preoccupa forse troppo degli esseri umani adulti oppure dei bambini come adulti a venire. Invece il bambino è il punto d’arrivo, la radice del nostro modo di essere. Tuttavia mi rendo anche conto dell’enorme pregiudizio laicista che esiste: un prete pedofilo e San Francesco non hanno davvero nulla a che fare l’uno con l’altro. Finché si parla di Buddha, Maometto o magari delle divinità dei Maya, va tutto bene, mentre attorno al cristianesimo c’è, in certi ambienti laici, una gran diffidenza.
A chi si rivolge il film?
Ai credenti, per stimolarli a riflettere su cose che vengono ormai date per scontate, ma anche ai non credenti. Personalmente non ho il dono spontaneo della fede, sono sempre stato problematico, il mio è un percorso intellettuale molto faticoso, tutt’altro che concluso, ma mi ha portato a cominciare a capire certe cose. Maria – che non è certo un’intellettuale – vive le emozioni, il cuore, tutto ciò che sfugge alla razionalità.
Qual è, in sintesi, la pedagogia di Maria?
Maria è una ragazza di appena 14 anni, una ragazza normale seppure straordinaria, che ha risposto immediatamente all’Annunciazione. Metaforicamente seguire l’angelo può voler dire seguire l’istinto… Grazie a lei, alla libertà che ha lasciato a suo figlio di esprimersi, di esplorare e di essere diverso dagli altri, Gesù è diventato quello che sappiamo. In questa visione, la religione è una fonte di liberazione. Anche nell’episodio delle nozze di Cana è dalla madre che prende spunto il miracolo: il figlio si rivolge a lei e lei gli indica cosa fare. Il cristianesimo è l’unica religione in cui Dio ha una madre. È una novità perché il mondo in cui matura l’Antico Testamento è misogino, come lo è quello in cui si sviluppa il Corano.
Ha mescolato attori e non attori, e Maria, per quasi tutto il film, è una giovanissima tunisina, Nadia Khlifi.
I Magi, ma anche Erode, sono attori europei, mentre gli umili sono non attori, gente del posto, che parla una lingua vicina all’ebraico e all’aramaico e vive di pastorizia. Ci sono similitudini impressionanti tra gli ebrei e gli arabi e così i personaggi ebrei, nel mio film, recitano in arabo. Ho voluto anche esaltare il contrasto tra umili e potenti, a partire dal modo di parlare e di mettersi davanti alla macchina da presa.
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