“Sono Alice: cerco la radio”: una bimba si aggira per le vie di Bologna. La sua voce apre Alice è in paradiso, documentario di Guido Chiesa prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci.
Con interviste, materiali di repertorio e animazioni racconta la storia dell’omonima radio libera.
Senza palinsesti, né conduttori e trasmissioni fisse, a tecnologia low-fi trasmise dal 6 febbraio ’76 al 12 marzo 1977, quando fu chiusa da un’irruzione della polizia.
Fondata da un piccolo gruppo, “tutti maschi che camminavano a braccetto e parlavano fitto fitto”, come racconta una voce femminile nel filmato, mandò in onda il nomadismo esistenziale e il rifiuto del lavoro, l’Antiedipo, Vladimir Majakovskij e William Burroughs.
E poi fantascienza, testi porno, Jimi Hendrix, lezioni di yoga, favole, dichiarazioni d’amore, la crisi del maschile, comunicati politici, John Coltrane, cronaca di cortei e di scontri con la polizia, musica punk e Beethoven.
Alice è in paradiso sarà presentato in anteprima a Bologna, il 12 marzo e trasmesso lo stesso giorno, alle ore 21.00, su Tele+Bianco.
In contemporanea esce, edito da Fandango, 1977 l’anno in cui il futuro incominciò, volume a cura di Franco Berardi (Bifo) e Veronica Bridi.
Da “Il partigiano Johnny” a Radio Alice. Perché?
Fare un film su Radio Alice è un mio pallino dalla fine degli anni Ottanta. Dopo Il partigiano Johnny proposi l’idea a Procacci. Gli piacque e cominciò il lavoro di ricerca per la sceneggiatura. Sugli anni di Radio Alice infatti sono stati scritti molti libri di taglio storico-teorico che si concentrano soprattutto sul marzo del ‘77 ma c’è poco sulle storie di chi ha vissuto quell’esperienza.
Da qui la necessità di fare delle interviste. La maggior parte dei redattori della Radio hanno aderito al progetto. L’unica loro preoccupazione era cadere nella retorica autocelebrativa ma siamo riusciti ad evitarla. Poi abbiamo deciso di raccogliere quel materiale per un documentario che ora vive di vita propria pur non esaurendo il discorso del film. Continuo a lavorare sul lungometraggio con i bolognesi di Wu Ming: si vedrà.
Nel ’77 non eri a Bologna. Qual era la tua percezione allora?
Nel ’77 avevo 17 anni, vivevo in un paese nella provincia di Torino e mi sentivo parte del movimento. Fin da allora quella bolognese mi sembrava un’esperienza diversa dalle altre: mi attraeva l’approccio molto ironico e poco belligerante. Leggevo Majakovskij e ritrovavo la stessa sperimentazione linguistica in riviste come “A/ttraverso”. Poi la morte di Francesco Lo Russo ha cambiato molto: è stata la morte dell’innocenza.
L’esperienza comunicativa della radio è il nodo cruciale del documentario.
Si, perché Alice superò la controinformazione facendo un’altra informazione su altri fatti. Con un’efficacia inedita nel nostro paese ha messo il dito su una piaga diffusa nella cultura di sinistra: il superamento dello dualismo tra forma e contenuto che ci è stata inculcata dall’idealismo crociano. Nel 1947 Giancarlo Pajetta convocò i cineasti di sinistra e disse loro che dovevano rifare i cinegiornali dell’Istituto Luce ma cambiandone il messaggio. Non aveva capito che il problema stava nel modo in cui erano fatti, nella loro estetica. Registi come Antonioni e i Taviani hanno messo in discussione il primato del contenuto che tuttavia continua a dominare la nostra cultura.
Trovi che l’intuizione di Radio Alice sulla centralità della comunicazione pervada anche i nuovi movimenti?
Alice intuì che ci sarebbe stato un bisogno capillare di comunicazione e che le tecnologie lo avrebbero reso possibile. Eppure, oggi vedo ancora troppa attenzione ai contenuti e poca riflessione sull’uso dei mezzi e dei linguaggi. E chi ne è consapevole (soprattutto su Internet ci sono esperienze interessanti) è però troppo settoriale, non ha la forza dirompente di Alice. Certo, è anche colpa di quelli della mia generazione che non hanno saputo creare memoria da cui ripartire.
Radio Alice nella Bologna del ‘77 e Radio Gap nella Genova del 2001: le uniche due radio italiane chiuse manu militari. Quali i legami tra i due eventi?
Intanto la reazione di un potere barbaro e violento che reprime qualunque voce di dissenso. Poi un’analogia negativa: entrambe sono state chiuse quando lo scontro è diventato militare. Lo scontro diretto è perdente oggi come ieri, non a caso la frase finale che chiude il mio documentario è: “mai più rivolta se non sarà divertente”. Dobbiamo inventare nuove armi: più ironiche e creative. Piuttosto che porci in modo esclusivamente negativo verso la barbarie culturale della tv commerciale dovremmo essere in grado di produrre un immaginario alternativo, qualcosa di liberatorio che seduca senza istupidire.
Alice: una radio nata da uomini ma con un nome femminile…
Per molti aspetti Radio Alice era un’isola di autocoscienza maschile in un contesto in cui le donne prendevano il sopravvento. Non è possibile capire quell’esperienza se non si coglie la rottura del movimento femminista. Non a caso hanno scelto un nome e un personaggio, quello di Lewis Carrol, molto legato al simbolico femminile.
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