Jadelin Mabiala Gangbo: forse qualcuno ha letto i suoi romanzi (Verso la notte Bakonga, Rometta e Giulieo) ma di certo sono in pochi a conoscere la sua singolare storia. 25enne, lunghi dreadlocks scuri, si è trasferito in Italia 21 anni fa con la famiglia e abita il vivace sottobosco culturale bolognese. Figlio di un ricco imprenditore del Congo ha vissuto a Imola, con tanto di villa, Jaguar e maggiordomi africani, fino al tracollo economico del padre che, in fretta e furia, ha lasciato lui e i suoi sei fratelli ed è tornato in Africa con la moglie.
Non sono più rientrati e dei ragazzi si sono occupati i servizi sociali. Così, a 18 anni, Jadelin si è ritrovato con la cittadinanza del Benin e un permesso di soggiorno da rinnovare periodicamente. Ora sta per scadere e, come impone la nuova legge Bossi-Fini, se non presenterà un regolare contratto di lavoro sarà espulso.
Di questa vicenda, singolare ma non troppo, si occupa Guido Chiesa in Il contratto, cortometraggio prodotto da Tele+ nell’ambito del progetto Le luci di Brindisi, a Venezia nella sezione Nuovi Territori. Ecco come Jadelin, che ha fatto l’operaio, l’attacchino, il pony express e il cuoco, racconta l’incontro con il regista: “Gli ho proposto una sceneggiatura ma lui l’ha rifiutata. Poi ho fatto il runner durante le riprese del documentario Alice è in paradiso“. Chiesa lo interrompe scherzoso: “Già. E’ arrivato in ritardo 6 mattine su 7. Ma in compenso è uno dei migliori giovani scrittori italiani”. Giudizio condiviso anche da Wu Ming 1, del collettivo di scrittori bolognesi Wu Ming (Q, Asce di guerra e 54) che nel filmato dice: “Jadelin abita la lingua italiana come un nomade”.
Perchè ha portato sullo schermo proprio la storia di Jadelin?
Perchè la sua è una condizione paradigmatica che tuttavia sfugge alle formule precotte dei massmedia. L’ho constatato anche nel corso del casting di Il mondo va avanti, un mio progetto di film che tocca il tema dell’immigrazione in modo obliquo, per cui ho incontrato tantissimi immigrati più o meno regolari. E’ gente che viene in Italia per lavorare e si trova intrappolata nelle maglie della flessibilità che li costringe a rimanere clandestini. E’ un paradosso della legislazione italiana che la legge Bossi-Fini peggiora nettamente: da una parte si predica la flessibilità dall’altra si chiede agli immigrati il contratto fisso.
Il tuo corto è un mix tra fiction e documentario.
Mi sono divertito a prendere in giro la seriosità delle inchieste tv e dei programmi strappalacrime alla I fatti vostri. Così ho chiesto ad Andrea Guerra di realizzare delle musiche da film neorealista e ho mostrato Jadelin un po’ come un ricercato. Poi, in questo momento un’inquietudine di fondo mi spinge a lavorare fuori dalle forme tradizionali del documentario. Del resto sembra che in Europa ci sia un grande interesse per la sperimentazione sul genere mentre in Italia, dove pure negli ultimi anni sono emersi almeno 15 buoni documentaristi, si continua troppo spesso a confonderlo con l’inchiesta giornalistica.
L’unico attore è Leo Mantovani.
Si. Veste i panni di un agente letterario. Ha improvvisato sulla base di pochissime indicazioni. Meriterebbe più spazio nel cinema italiano che fino ad ora non ha saputo valorizzarlo.
Hai in cantiere diversi progetti. Qualche dettaglio?
Il lungometraggio Il mondo va avanti è bloccato per problemi produttivi mentre il film sul ’77 è in fase avanzata: sto scrivendo la sceneggiatura con Wu Ming e Domenico Procacci ha già approvato la prima versione. Dovrei girare entro il prossimo anno. Poi farò un documentario sull’Italia degli ultimi 20 anni per Arté.
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