VENEZIA – “Pensavo di essere l’unica”.
Maren – una convincente Taylor Russell -, 18 anni nel film Bones And All di Luca Guadagnino, in Concorso alla Mostra – è “figlia” dell’America reaganiana Anni ‘80, di un padre che la cresce ma poi le lascia “solo” il nastro di una musicassetta in eredità di se stessa, e di una mamma che non è certa esista ancora.
Un “pigiama party” tra compagne di liceo, l’intimità intuita con una di loro e… un improvviso e incontrollato morso cannibale, così Maren prende coscienza per la prima volta di sé, della sua condizione, di un istinto difficilmente dominabile, una fame bulimica “disfunzionale”. Eppure, non è l’unica.
“Ho ragionato molto a lungo nella mia vita – da quando ero un ragazzino che sognava di fare cinema – sul paesaggio americano, sull’immaginario del cinema americano, da cui sono stato profondamente influenzato e formato e credo che, forse in maniera inconsapevole, ho cercato sempre di rinviare il momento, forse perché la vastità e la complessità degli Stati Uniti meritavano la prospettiva di una persona un po’ più matura. L’occasione si è manifestata in maniera imprevista e famigliare: quando Dave (David Kajganich, lo sceneggiatore) ha scritto questo straordinario copione me l’ha fatto leggere; era un copione a cui stava lavorando al di là di me. Quando ho letto la sceneggiatura – dal libro di Camille DeAngelis, ndr – per me era inevitabile vedere nella storia di questi ‘drifters’ e di queste identità, in cerca di una forma di possibilità nell’impossibile, un qualcosa che mi attraeva profondamente. E in maniera molto naturale tutto questo si è compiuto”, spiega Luca Guadagnino, regista del suo “primo film americano”, co-prodotto anche da Lorenzo Mieli e distribuito da Vision.
“La prima volta avevi tre anni…” racconta la voce del papà di Maren dentro le cuffie di spugna del walkman che lei indossa e ascolta, mentre – certificato di nascita alla mano e zaino in spalla – è partita in pullman per attraversare gli Stati Uniti alla ricerca della mamma, nata in una città del Minnesota, questa l’unica informazione a sua disposizione.
La prima tappa di Maren – obbligata, per una questione di soldi, non molti erano i dollari in tasca – è Columbus, nella notte illuminata solo dai lampioni e con la silhoutte, che poi prende forma, un uomo dall’aspetto bizzarro, quasi fiabesco si potrebbe dire – diverse spille sul panciotto, una cappello piumato in testa, e una lunga treccia lungo la schiena –, che le “appare” difronte; l’ha annusata, ha sentito l’odore di una sua “simile”. Lui è Sully (Mark Rylance), cannibale che sente l’avvicinarsi della morte delle persone, così attende e poi le mangia. Ciascun cannibile ha le proprie regole, lui – per esempio –, invitando amorevolmente a casa sua Maren, le spiega che la sua prima è di non sfamarsi mai di un altro come loro. Banchetteranno poi insieme, Maren e Sully, poche ore più tardi. Ma Maren è tormentata da questo suo status, e inquietata in fondo e da Sully: riprende il suo viaggio.
È in Indiana, e in un supermercato dove raccatta qualcosa per sfamarsi di cibo, che incontra per la prima volta Lee (Timothée Chalamet), coetaneo o poco più, viso d’angelo tormentato e capelli rosati. Lo annusa, lo riconosce “simile”. Una conferma, ennesina, di non “essere l’unica”. Un avvicinamento discreto, ma “un pasto” comune poco dopo: il pick-up bluette della vittima rubato allo stesso – il papà di un neonato, scopriranno, con violento dissenso di Maren –, per iniziare il loro viaggio/romanzo di formazione, tra gli States del Mid West e se stessi, in quanto cannibali, in quanto adolescenti, in quanto creature con un’emotività complicata ulteriormente dal loro stato di a-normalità.
“L’amore tra questi due personaggi è tragico e fortissimo. È difficile trovare la propria tribù e questo film è stato fatto durante la pandemia: la sensazione di essere isolati, di non avere una tribù, di non avere contatti sociali, ci ha rallentati nel capire chi siamo nel mondo. Noi abbiamo trovato il nostro ruolo nella storia: Maren e Lee sono persone che si isolano profondamente, senza un vera identità, e che attraverso lo specchio dell’amore trovano un modo di formarsi, di crescere” spiega Chalamet, sempre in parte, che dà la sua massima intensità nella sequenza in cui confessa a Maren la propria storia famigliare, in cui si lascia trasportare dal pianto con tutta la tensione mimica possibile del volto, che Guadagnino inquadra con occhio magistrale e ravvicinato, come ad entrare quasi fisicamente dentro al concetto dell’interiorità.
E, a proposito del ruolo, sempre Chalamet dice che quella di Bones And All è una di quelle “storie di chi fa parte di una profezia e non può sottrarvisi: per me un ruolo davvero interessante, un’anima spezzata”.
“Era un road movie: ci siamo accampati a Cincinnati ma ci siamo mossi molto; era mio compito assicurarmi che non avessimo abbandonato l’idea di ritrarre una realtà: il production designer ha creato un mondo senza crearlo, un modo straordinario quello in cui è riuscito a trovare ‘questa America’ in America e non su un palco”. E di questa America, appunto, fa parte anche l’ospedale psichiatrico in cui vive la mamma di Maren, che – nella sua decisa ricerca in itinere – incontra prima la nonna, e poi colei che le ha dato la vita, scoprendo, difronte a una donna sedata e mutilata, e da una lettera scritta per lei in attesa del momento di re-incontrarla, che “questo mondo non vuole mostri”, frase che apre la via a destini di tormento o a scelte estreme, secondo il punto di vista del genitore, che capiamo conoscere personalmente “l’unicità” (non unica) dell’essere cannibale.
Questo incontro non è punto, non è una fine, ma le strade – fisiche, almeno – di Maren e Lee si separano, quelle di lei e Sully si incrociano di nuovo, inquietantemente ma temporaneamente per ora, finché una ripartenza decisa verso l’Ovest e la proposta di provare a vivere una vita normale, che la ragazza fa al personaggio di Chalamet, avviano sulla strada dell’apice dell’orrore da una parte, che al contempo si fa apice del romanticismo dall’altro, in un crescendo tra fame cannibale e sangue, lacrime e baci. Stacco: una casa immacolata, il bianco più puro dappertutto. Stacco: la visione di un paesaggio sconfinato, metafora di un per sempre e di un tutto possibile, e di un niente che condanni.
“È difficile vivere oggi, il crollo della società è già nell’aria. Credo che questo film possa gettare luce sulla situazione” aggiunge Timothée Chalamet, anche co-produttore del film, per cui: “Ringrazio Luca: è stato un po’ come un padre con me, mi ha guidato. Spero di poter continuare su questa strada, anche portando sullo schermo storie in cui non recito”.
L’approfondimento video: guarda qui.
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