Il problema, con i film tratti dai videogiochi, è grossomodo sempre lo stesso: non sono giocabili.
Già, perché nel media originario quello che conta è sostanzialmente il gameplay, ovvero la capacità di coinvolgere il giocatore soprattutto con gli aspetti puramente ludici e interattivi del pacchetto. Grafica, sonoro e tutto il resto – pensiamo a Tetris, anch’esso “protagonista” di un film uscito in questi giorni per Apple TV – passano in secondo piano, sebbene costituiscano un importante “corollario” che supporta il gancio principale a volte in maniera anche sostanziosa. Perfino la trama – che ultimamente sembra essere diventata un punto centrale anche per il cinema – nei videogiochi delle origini era ridotta all’osso.
A volte nemmeno c’era, o era totalmente surreale.
Prendiamo alcuni esempi lampanti:
Pac-Man: una pallina gialla intrappolata in un labirinto, inseguita da fantasmi, deve mangiare dei puntini e, occasionalmente, delle grosse pillole che le permettono di invertire i ruoli e dare la caccia agli ectoplasmi.
Pong: due racchette si contendono una pallina – Le palline sono ricorrenti. Ma in verità, qui è un quadrato di pixel – come in una partita di tennis alternativa.
Breakout: stavolta la racchetta è una, la pallina-quadrato rimbalza e colpisce un muro di mattoni, che deve essere abbattuto. Insomma, c’è più trama in una partita di poker.
Poi man mano la tecnologia si sviluppa, e assieme ad essa il linguaggio, e così i videogiochi diventano sempre di più uno strumento narrativo e una forma d’arte. Pensiamo a Metroid, un gioco di piattaforme sviluppato nel 1986 proprio da Nintendo (mamma anche di Super Mario), che presenta perfino un plot twist finale. Niente di che: il tipo in armatura spaziale che abbiamo guidato per tutto il tempo di gioco, nel finale, si toglie il casco, e rivela le fattezze di una donna.
Però c’è, e per i tempi era abbastanza sorprendente.
Ormai i videogiochi richiedono regia, doppiaggio, recitazione… sono realizzati in tre dimensioni e spesso con un aspetto grafico realistico esattamente come un film. Però quelli fatti veramente bene, mantengono sempre il gameplay centrale, e dunque va da sé che ciò che funziona perfettamente quando è “giocato”, non sempre può essere trasposto al cinema ottenendo il medesimo coinvolgimento, se chi guarda non può intervenire, risultando spesso noioso e artefatto.
Succede anche a film non tratti da videogiochi che però si comportano “come se lo fossero”, come ad esempio John Wick 4, che alla fine risulta un lungo “walkthrough” dove si sente però – e per ben tre ore – la mancanza di un pad tra le mani che ci permetta di modificare lo svolgimento dei fatti.
Tutto questo, fortunatamente, a Super Mario Bros – Il film, in sala con Universal, non accade, e questo è il suo principale merito perché i precedenti in termini di riuscita sono veramente pochi: forse il Prince of Persia del 2010 e qualche capitolo della serie Tomb Raider.
I motivi sono molteplici. Cerchiamo di analizzarli.
Il primo: Super Mario, di base, e nella sua forma originale, è più simile a un videogioco senza trama che a uno con trama. Un omino baffuto – un modo per risparmiare memoria e non dover disegnare le espressioni della bocca – deve salvare la principessa Peach tenuta prigioniera in un lontano castello dal mostro Bowser (Koopa nella versione giapponese). Per farlo deve attraversare vari quadri (o “mondi”) irti di pericoli, saltando di piattaforma in piattaforma, evitando i nemici o eventualmente zompando loro in testa, spaccando mattoni da cui fuoriescono monete, e ingurgitando di tanto in tanto dei funghi che lo fanno crescere donandogli vari poteri, moderno Alice nel paese delle Meraviglie.
E’ diventata celebre, generando molti meme, la frase che Mario – e quindi il giocatore – riceveva alla fine di ogni mondo (escluso l’ultimo, chiaramente): “Grazie, Mario, ma la principessa è in un altro castello !”. Una sequela potenzialmente infinita di fallimenti che solo dopo ardui tentativi avrebbero portato al successo. Se vogliamo, una sintesi perfetta della storia del cinema tratto da videogiochi.
Formula amatissima e imitatissima, quella di Mario a volte anche fino agli estremi del plagio, come nel caso del The Great Giana Sisters che uscì negli anni ’80 per i personal computer 8 e 16 bit, orfani di Mario che era un’esclusiva della console Nintendo Famicom (o NES che dir si voglia).
Mario, oltre al fratello Luigi, uguale a lui ma vestito di verde – e solo successivamente caratterizzato come alto e secco – ha anche un altro “parente”: Jumpman, protagonista del gioco Donkey Kong. Fa il falegname (mentre il mestiere ufficiale di Mario e Luigi è quello di idraulici) e deve salvare la bella Pauline dalle grinfie di un gorilla inferocito che l’ha rapita. Fino a ieri credevamo che Mario e Jumpman fossero esattamente la stessa persona, ma una delle tante sorprese che questo film ci riserva suggerisce altro.
E veniamo al punto, anzi, ai punti. Un gioco senza trama è (forse?) più facile da trasporre: permette più libertà creativa, più inventiva, e in sostanza, quando passa al cinema, gioca gran parte della sua partita, come in questo caso, sul piano puramente visivo, cercando soprattutto trovate intelligenti per dare allo spettatore, comunque, un certo senso di “interattività”, lavorando anche con la familiarità delle musiche e degli effetti sonori, trovando giustificazioni corrette per lo sfruttamento della bidimensionalità in un ambiente tridimensionale, e citando praticamente tutti i giochi di cui Mario è stato protagonista, dal classico che tutti conosciamo alle varianti Super Mario Land, Super Mario Kart, Super Mario 64 (che in effetti, essendo il primo in 3D, permea un po’ l’approccio dell’intera pellicola) e Super Smash Bros.
In sostanza, il film in qualche modo “gioca”, e riesce a farci giocare con lui.
O forse, più precisamente, inverte le parti: gioca con noi, dato che noi non possiamo giocare con lui, riuscendo comunque a ottenere un buon rapporto di interrelazione che di fatto ottiene il risultato: ci coinvolge. Poi ci sono i personaggi, e qui la faccenda si fa complessa. Ma neanche troppo, perché anche in questo caso, si gioca sulle parti invertite e sul cambio di ruolo. In linea con certe istanze moderne, che sembrano aborrire il modello “principessa in pericolo”, la bella Peach, partner ideale di Mario, si fa qui parecchio avanti, fino a togliergli spesso il ruolo di protagonista. Verrebbe quasi da pensare a una forzatura, ma non è così: gli appassionati sanno infatti che Peach era un personaggio “selezionabile” – in sostanza, la si poteva usare per giocare – già a partire dal gioco Super Mario Bros. 2, e quindi, nel caso, questo film è solo una partita dove i registi hanno scelto Peach invece di Mario.
Quello che invece paradossalmente esce fuori poco è il buon Luigi. Nei giochi è spesso alla pari di Mario, anche perché in sostanza interpreta il Player 2 nella modalità “in doppio”, mentre qui è sostanzialmente l’elemento da salvare – il che ha senso, dato che Peach non lo è più – inattivo e pauroso per la maggior parte del film (vero che sono tratti delineati “a posteriori” anche in alcuni giochi, come Luigi’s Mansion), riscattandosi bene soltanto nel finale.
C’è anche Donkey Kong, naturalmente, che si ritaglia un ruolo un po’ più stratificato di quello del semplice villain.
A livello di impianto, comunque, i registi Aaron Horvath e Michael Jelenic e lo sceneggiatore Matthew Fogel si mantengono – e fanno bene – su uno sviluppo semplice, di buon intrattenimento per famiglie, non troppo distante dalla versione live action del 1993 con Bob Hoskins e John Leguizamo, abbandonandone però le venature dark e para-realistiche che lo rendevano per certi versi un bizzarro antecedente del cinema di Christopher Nolan.
Shigeru Miyamoto, creatore di Mario, figura invece come produttore insieme al Chris Meledandri di Cattivissimo me.
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