‘Grain’ e il fotografo Fabio D’Emilio: la storia del rock 12 scatti alla volta

All'Ortigia Film Festival è stato presentato in anteprima Grain – portrait of Fabio d’Emilio di Simone Valentini


SIRACUSA – Mentre sul palco di Piazza Minerva, Giuseppe Fiorello si commuoveva sulle note di Stranizza d’amuri di Franco Battiato, a poche centinaia di metri, nell’arena Logoteta, veniva proiettata l’anteprima mondiale di Grain – portrait of Fabio d’Emilio, film che partecipa al Concorso Internazionale documentari del 15mo Ortigia Film Festival. Protagonista del film è Fabio d’Emilio, fotografo che ci ha regalato alcune delle più iconiche immagini proprio del giovane Battiato (quello di Pollution per intendersi), insieme a iconici scatti dei più importanti musicisti e rocker degli anni ’60 e ’70, dai Pink Floyd ai Queen, passando per Patty Smith.

Il regista Simone Valentini racconta la vicenda unica dell’allora altrettanto giovane D’Emilio in un mondo della musica che ci appare incredibile, se visto col filtro della contemporaneità. Il fotografo poteva scattare 12 volte prima di dovere cambiare un grosso rullino, utilizzare flash appositi, arrangiarsi sottopalco e nella relazione con gli artisti, in un contesto discografico anni luce lontano da quello attuale. Così nella sua gioventù ricca di avventure D’Emilio ha dovuto inventarsi driver per Mick Jagger, aggiustare il monociclo di Peter Tosh per conquistare la sua fiducia o prendere un volo per Zurigo solo per riuscire a imprimere su pellicola i volti dei Pink Floyd, in particolare quello del mitico tastierista Richard Wright fino a quel momento invisibile dietro il suo muro di tastiere.

“Ci siamo conosciuti durante le riprese di un videoclip, dove Fabio aveva portato un po’ di macchine fotografiche per degli elementi di scenografia. – racconta Valentini in esclusiva a “CinecittàNews” – Dopo le riprese ha iniziato a raccontarmi la sua storia. Mi ha subito incuriosito perché era un mondo lontano da me e che non avevo mai sentito raccontato. Cose che davo per scontato che, invece, non erano affatto, come il rapporto con la musica straniera. Il modo in cui venivano vissuti i concerti. Era una storia densa, ricca di aneddoti ed eventi e mi piaceva il modo particolarmente accattivante con cui Fabio la raccontava”.

Un’affinità elettiva che ha guidato da subito il progetto, come ricorda il regista: “La cosa che ci accomuna di più è essere mossi da una passione, perché io ho studiato economia, una cosa che non c’entra nulla con il cinema, e poi ho scoperto di avere questa passione per il racconto. Abbiamo abbandonato delle strade per prenderne altre, che poi piano piano hanno dato i loro frutti, con il tempo. Ci vuole coraggio per fare queste scelte: come Fabio dopo il servizio militare non è tornato a casa ed è andato alla Emi, io una mattina non sono andato all’università, ma ho deciso di andare su un set a fare i caffè a Marco Risi”.

Definire Fabio D’Emilio un fotografo sarebbe riduttivo. Discografico, pubblicitario, direttore del marketing: nella sua vita ha saputo sfruttare i suoi tanti talenti, riuscendo sempre a reinventarsi, come si vede nel documentario, quando iniziò a lavorare per la Palmolive, producendo da solo spot iconici e rivoluzionari. “È cominciato tutto con una macchina fotografica, che è stata un fil rouge costante negli accadimenti della mia vita professionale e personale. – rivela D’Emilio – Ci sono state un sacco di sliding doors. È per questo che io consiglio sempre ai giovani di scendere in strada e fare cose, perché sennò non accade nulla. Passai dalla fotografia alla musica, altra mia grande passione, ma tutto quello che imparai nel mondo della musica dal punto di vista professionale e umano è diventato utilissimo in un ambiente completamente diverso che è stato quello del marketing di largo consumo. La stranezza del mio background mi ha sempre dato dei vantaggi. Un tipo di carriera che forse oggi è irripetibile”.

Ciò che più affascina di Grain, nel collage degli splendidi scatti realizzati da D’Emilio che ripercorrono due decenni di storia del rock alternate da piccole animazioni di raccordo, è riscoprire l’unicità di quei tempi così distanti, dove non esistevano festival all’aperto (il primo fu il Caracalla Pop Festival) e la sperimentazione riguardava ogni aspetto del processo discografico. “Oggi siamo qui, se facciamo una foto, tra un attimo siamo in rete. – conclude D’Emilio – Ai nostri tempi, cominciavo la sera alle 7 e finivo il giorno dopo alle 5 e mezza di pomeriggio. L’avvento del digitale non mi ha scoraggiato, non faccio più il fotografo a livello professionale, ma per passione. La professione del fotografo digitale è arrivata a un tale punto di sofisticazione, che se non sei dentro dal punto di vista tecnico non riesci a capire fino in fondo. Anche la libertà creativa è diversa. Prima, ad esempio, la luce era un vincolo, ora è un’opportunità. Prima sviluppare una foto a mille ASA era un processo complicatissimo e delicato, ora lo puoi fare con un telefonino da 200 euro”. 

di Carlo D’Acquisto

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16 Luglio 2023

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