Circuiti, componenti di metallo e pezzi di gomma inquadrati in un ambiente desertico dominato da un bagliore arancione quasi accecante. Persone che parlano, fredde stanze piene di computer. Ciò che appare sullo schermo in Good Night Oppy – il documentario prodotto da Amazon Studios e dalla Amblin Entertainment di Steven Spielberg, con la voce narrante di Angela Bassett, in arrivo su Prime Video il 23 novembre – sulla carta potrebbe non sembrare la cosa più attraente del mondo, eppure il film diretto da Ryan White è una delle esperienze cinematografiche più emotivamente coinvolgenti che possiate fare. È soprattutto per questo, probabilmente, che Good Night Oppy ha appena sbancato i Critics Choice Documentary Awards vincendo cinque premi nelle categorie più importanti, tra cui Miglior Documentario, Miglior Regia e Miglior Colonna Sonora. Un’ottima premessa per gli Oscar.
Oppy sta per Opportunity, il nome di uno dei due robot gemelli mandati dalla Nasa in missione su Marte per esplorare il pianeta e scoprire, soprattutto, se ci sia (o ci sia mai stata) acqua, il che implicherebbe anche la presenza di forme di vita, per quanto primordiali. Insieme all’identico rover di nome Spirit, Oppy è stato costruito con amore nel corso di anni da un team di scienziati di altissimo livello, eterogeneo per origini e percorsi di vita, ma accomunato da autentica passione per l’avventura nello spazio. Nel 2003 quel team ha spedito su Marte i due rover a distanza di due settimane l’uno dall’altro. Come racconta il film – che si avvale degli effetti visivi della Industrial Light & Magic, dei filmati d’archivio della Nasa e del Jet Propulsion Laboratory – dal capo-progetto all’ingegnere e giù fino al meccanico, tutti i professionisti coinvolti avevano la sensazione di lasciar partire per un viaggio difficile e pericolosissimo il figlio che avevano generato, accudito ed accompagnato verso l’autonomia, sapendo oltretutto che non lo avrebbero rivisto mai più. Il distacco non poteva che essere strappalacrime.
La missione prevedeva che Spirit e Oppy avrebbero lavorato su Marte per 90 sol (giorni marziani), Oppy invece ha concluso la sua “esistenza” e il suo lavoro sul pianeta rosso nel 2019, 15 anni dopo il previsto. Il suo periglioso viaggio, tra l’altro, era per la Nasa una “mission of redemption”, ovvero l’opportunità per riscattare il fallimento di altre missioni precedenti su Marte e tirar via il conseguente velo di sconforto che all’epoca era calato sull’agenzia spaziale americana. Un’opportunità che era anche una grande responsabilità, visti i milioni di dollari investiti nel progetto. A portarla sulle spalle c’erano, tra gli altri, il geologo a capo della missione – approdato nella squadra dopo 10 anni di proposte alla Nasa perché “studiare le rocce è bello, ma sulla Terra non c’era più nulla da scoprire” – un ingegnere robotico ghanese, la ragazza di campagna dell’Ohio cresciuta tra maiali e pecore ma incoraggiata, da sempre, all’esplorazione spaziale da suo padre. E poi, negli anni, nuove generazioni di scienziati che avevano seguito con partecipazione le prime avventure di Spirit e Oppy in tv. Tutti, ogni mattina, gasati dalla tradizionale “wake up song” che segna l’inizio delle giornate di missione, da Walking on Sunshine a SOS degli Abba, da Here Comes the Sun a Wake Me Up Before You Go-Go. Esperti di ogni provenienza, lingua e cultura, riuniti nel nome di una missione e di una passione che diventa un’avventura esistenziale e una metafora potente di moltissime cose. Mentre sullo schermo si impone la star Oppy – che ricorda moltissimo Wall-e e che, come lui, per lo spettatore diventa immediatamente più umano degli umani – noi vediamo i suoi creatori crescere e poi invecchiare tra suspense, palpitazioni e commozione per le sorti del loro figlio spaziale. Anche Oppy, d’altronde, negli anni invecchia: perde la memoria e si ritrova polvere nelle giunture. Fino a spegnersi.
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