UN PINOCCHIO DARK E’ una trasposizione diversa da tutte le precedenti, quella offerta da Pinocchio con la regia di Guillermo Del Toro. Lo sottolinea nell’articolo pubblicato su Domani Teresa Marchesi che scrive: “l’animazione in stop-motion non è concepita per ingentilire ma per illividire il racconto. E l’antefatto stesso è funereo: mastro Geppetto perde il suo vero figlio bambino sotto una bomba della grande guerra. Da scultore di crocifissi per la chiesa locale, diventa, per disperazione, un avvinazzato rifiuto umano. La furiosa creazione del burattino, in una notte di tempesta, è una replica di Frankenstein: nel suo delirio, il vecchio intaglia in un tronco di pino le rozze sembianze del figlio. La tana di un grillo ramingo, aspirante scrittore, è in quel tronco al posto del cuore. Il ribaltamento operato dal regista messicano è radicale. Non è il burattino a dover conquistare lo status di essere umano, è il padre creatore che deve imparare ad amarlo per quello che è. I nostalgici di Gina Lollobrigida nei panni della Fata Turchina comenciniana si attrezzino: qui è una sorta di sfinge alata che ha per sorella la Morte. Sono i due poli dell’esistenza in cinquanta sfumature di blu. Lo stesso Pinocchio, con le gracili membra da insetto, prese dalle illustrazioni di Gris Grimly, è tutt’altro che accattivante”. Insomma, come si sarà capito, un film più adatto al pubblico adulto che ai piccoli spettatori.
NON E’ PIU’ TEMPO DI CINEPANETTONI Intervistato da Adriana Marmiroli su La Stampa in occasione della programmazione su Prime Video dal 1 dicembre del film Improvvisamente natale, Diego Abatantuono riflette sulla realtà del mercato: “I dati dei cinema -afferma- sono disastrosi. La sala è affascinante se c’è la gente, ma vuota è triste. Non è solo questione di bello o brutto, carino o eccezionale. C’è a chi piace radersi i capelli di lato e tenerli lunghi in cima alla testa. E’ bello? E’ brutto? Solo a pochi sta bene. Però è la moda ed allora tutti si pettinano così. Idem per il cinema. Improvvisamente tutti devono vedere un certo film. C’è un po’ di diseducazione a pensare con la propria testa”. E poi ancora Abatantuono a proposito dei cinepanettoni: “erano un’altra cosa rispetto a questa commedia (Improvvisamente Natale ndr), ambientata in un non natale. Li ho fatti e mi sono divertito. Anche se ricordo un’estate a Sacrofano con 40 gradi nel frigo e noi con il piumino”.
COME E PERCHE’ DOVREBBE NASCERE UN FESTIVAL Sull’edizione torinese de Il Corriere della Sera, Gabriele Ferraris rievoca la nascita del Torino Film Festival, “nato- scrive- senza proclami roboanti, quasi in punta di piedi, il 25 settembre 1982. A farlo è un pugno di cinefili istigati da un esordiente assessore alla gioventù, Florenzo Alfieri. Lo progettano e lo dirigono un docente universitario, Gianni Rondolino, e un regista, Ansano Giannarelli; lo finanziano gli enti pubblici; lo realizza un’associazione privata con Gianni Vattino presidente e un consiglio direttivo di intellettuali e gente di cinema… molti dei pionieri arrivavano dall’esperienza del Movie Club, la sala di via Giusti dove si forgiarono la futura classe dirigente del festival, e la cinefilia dei torinesi… L’attuale Tff -conclude l’articolo- nasce dunque dalla perfetta alchimia di una politica preveggente con un ambiente predisposto. C’erano i cineclub e il pubblico dei cineclub: c’erano i maestri e allievi cresciuti nelle aule universitarie e nei cinemini di quartiere: c’era una città pronta per il festival. Di quell’habitat Cinema Giovani (primo nome della kermesse ndr) fu naturale conseguenza. E vien fatto di domandarsi quanti dei festival che oggi, a Torino, si inventano a freddo nelle stanze del potere, calati dall’alto o importati e pagati chiavi in mano, saranno fra quarant’anni come il Tff: grandi, sani e amati dai torinesi”.
E’ SEMPRE HOLLYWOOD BABILONIA Si intitola La formula perfetta ed è il titanico libro di David Thomson sulla storia di Hollywood, dalla nascita ai nostri giorni. Ne parla su Il Messaggero Andrea Frateff-Gianni, che paragona l’approfondito lavoro di Thompson, definito il più grande critico cinematografico vivente, e vicende le hollywoodiane narrate nel libro a quelle del film Chinatown. “Chinatown –si legge- non è solo un film tragico e profetico, non è solo la parabola di una città fondata su sfruttamento, potere, stupro, avidità e fiuto per il futuro. E’ una metafora magica e sottile su Hollywood e sul mestiere del cinema, nella quale al solitario cercatore di verità viene intimato di chiudere il becco, di contentarsi di restare vivo e incassare (forse) il compenso pattuito, rassegnandosi all’idea che il Sistema, il Business –loro- sopravviveranno e resteranno al comando, a condurre lo spettacolo, in eterno”.
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