“Chi contesta Gomorra non si è mai fatto un giro a Scampia – scandisce Marco D’Amore, seccato dall’ennesima domanda sugli ‘effetti della serie sulla gente’ – sono dieci anni che mi fate questa obiezione, non ce la faccio più. I ragazzi di Scampia quando vedono Gomorra si fanno quattro risate. Lo Stato lì non esiste”.
Regista e interprete nel ruolo chiave di Ciro Di Marzio ‘l’immortale’ è protagonista anche di questa quinta e ultima stagione. Altrettanto protagonista, anzi antagonista, è Gennaro Savastano (Salvatore Esposito): i due amici-nemici sono destinati a ritrovarsi e sfidarsi. Ciro è vivo, è fuggito a Riga, in Lettonia. L’escalation di violenza è inevitabile. Un modello negativo, un mondo senza redenzione? Per Riccardo Tozzi, fondatore di Cattleya, “I buoni ci sono e sono le vittime. La repressione si sente per tutta la serie, magistrati e polizia sono presenti, ma il vero problema è l’assenza della scuola e del lavoro, è questa assenza che genera mostri. I criminali vengono arrestati e si ammazzano tra di loro, ma la situazione socio-economica li riproduce. Adesso a Napoli c’è un fantastico sindaco e penso che vedremo cose diverse”. Per Roberto Saviano: “La presenza dello Stato nella narrazione è narrata dal punto di vista criminale, come un’interferenza. I criminali hanno paura più dei rivali che della polizia che li può solo arrestare. Comunque nessuno è diventato un bandito vedendo Gomorra, come nessuno è diventato prete dopo aver visto Don Matteo. Piuttosto è interessante capire come un boss costruisce il mito di se stesso. La serie non spinge a fare il male, ma aiuta a capire il fascino del male. L’arte non deve rischiare di essere didascalica, ma io sento di aver fatto un lavoro pedagogico”.
Gomorra 5, prodotta da Cattleya con Beta Film e diretta da Marco D’Amore (i primi cinque episodi e il nono) e Claudio Cupellini (6, 7, 8 e 10), sbarca su Sky Atlantic e su Now dal 19 novembre. A presentarla al Teatro Brancaccio di Roma il cast, gli sceneggiatori e i produttori al gran completo. E naturalmente Saviano, lo scrittore da cui tutto è nato con un romanzo Mondadori diventato film per la regia di Matteo Garrone e appunto serie internazionale, venduta in più di 190 paesi con un valore di esportazione di oltre 100 milioni di euro, un caso esemplare. D’Amore ha firmato anche la regia del film di successo L’Immortale che fa da ponte tra la quarta e la quinta stagione: “Ciro e Genny – afferma l’attore e regista – sono cresciuti e cambiati in questi anni. Questa stagione è un unico grande capitolo, mette insieme i sentimenti di amore e odio, amicizia e rivalità, ma anche i sensi di colpa tra questi questi due grandi protagonisti che tornano a incontrarsi. Si va verso una chiusura, verso una resa dei conti”.
Con loro tornano anche anche Ivana Lotito, che è Azzurra, e Arturo Muselli nel ruolo di Enzo Sangue Blu, l’ex re di Forcella. Ma ci sono anche diversi nuovi ingressi nel cast: Domenico “Mimmo” Borrelli è Don Angelo detto ‘O Maestrale, il feroce boss di Ponticelli che si rivelerà fondamentale per la guerra di Genny contro i Levante e per permettergli di riprendersi Secondigliano. Tania Garribba è Donna Luciana, la moglie di ‘O Maestrale, donna dal carattere feroce e dall’intelligenza raffinata, con Carmine Paternoster e Nunzia Schiano a interpretare rispettivamente Vincenzo Garignano detto ‘O Galantommo, anziano boss di un paese alle pendici del Vesuvio, e Nunzia, sua moglie.
Per Tozzi Gomorra la serie – che ha le musiche martellanti dei Mokadelic – lavora a tradurre una situazione reale in dramma scespiriano. Forte l’impatto della lingua, quasi musicale, con i sottotitoli a corredo indispensabile. “L’uso del napoletano ha implicato un modo diverso di scrivere i dialoghi – riflette il produttore – questi dialoghi hanno una sintesi e un’icasticità filosofica tipica di Napoli. Una cosa che poi abbiamo trasferito anche in altre serie”. Gomorra per Tozzi è un’esperienza fondativa. “Ha dato all’Italia una posizione diversa nella serialità internazionale”. Maddalena Ravagli, sceneggiatrice con Leonardo Fasoli, rivendica l’osservazione puntuale della realtà. “Abbiamo letto ordinanze di custodia cautelare, intercettazioni. Ma c’è anche lo strazio personale, il dolore di un’anima divisa in due che si trova nel libro. Speriamo che questo dolore sia ascoltato anche quando sarà finita la serie”. Interviene Saviano: “La serialità consente di compiere un percorso più approfondito. Non raccontiamo solo il potere criminale, ma il potere e la violenza nella sua universalità, la periferia di tutte le metropoli, dal Brasile a Città del Messico. E’ un modo per raccontare il nostro mondo: o freghi o sei fregato. C’è solo il male? Tutt’altro. È proprio il male che ti fa vedere la possibilità della luce. Qui non c’è un personaggio positivo in cui riconoscersi, non ci sono vie di fuga. Ogni volta all’estero mi chiedono come mai la serialità italiana prescinde dal bene. I protagonisti sono già sconfitti e lo sanno loro stessi. Tutti attendono solo quando morire, come morire. Gomorra non dà allo spettatore un cibo già masticato”. Salvatore Esposito racconta l’incredibile popolarità del personaggio. “Maradona mi è venuto incontro dicendomi di essere un mio grande fan, cosa che mi ha messo in imbarazzo. La fine di Gomorra è come la fine di una relazione. Ti dai alla pazza gioia, sei pronto a nuove avventure, ma c’è anche la tristezza, la consapevolezza di aver dato il massimo”. Per Marco D’Amore è anche questione di chimica. “Ho incontrato Salvatore ai provini, e la relazione che c’era tra noi ha cominciato a influenzare la scrittura. Genny doveva morire alla fine della prima stagione, ma così non è stato. Tra noi c’è attrazione fisica e sentimentale, quel parlarci a un centimetro dal naso è un segno, sfida ma anche intimità. L’amico – come dice il mio personaggio – è più importante della femmina”. “La nostra è una storia d’amore – conferma Esposito – quei due non riescono a stare lontani uno dall’altro”.
Perché chiudere proprio adesso, all’apice del successo, dopo 58 episodi e 8 anni? “Spesso nella serialità si arriva a un punto in cui si va avanti solo per sfruttare il successo – spiega Tozzi – ma noi vogliamo morire da vivi, mantenere l’energia narrativa al suo massimo. Se c’è qualcosa di non raccontato è meglio che rimanga tale”.
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