“Voi gridavate cose orrende e violentissime, e vi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne”. Trent’anni fa, in Caro Diario, Nanni Moretti pronunciava una delle più iconiche frasi del lessico morettiano, sintesi di una poetica che fonde senza soluzione di continuità una pungente critica sociale a una schietta, autoreferenziale e irresistibilmente spocchiosa ironia. Non è difficile fare i conti per sapere che oggi, all’alba del 19 agosto 2023, il regista simbolo di una generazione raggiunge altrettanto splendidamente il traguardo dei suoi 70 anni. Alle sue spalle mezzo secolo di cinema, vissuto tra tanti, memorabili successi. Ripercorriamo qui, titolo dopo titolo, alcuni capitoli di una carriera unica nel suo genere.
Non si può non iniziare citando il primo lungometraggio del regista. Un esperimento a bassissimo budget di un appena 23enne Moretti che già contiene tutte le caratteristiche principali dell’autore che diventerà in futuro. Girato in super 8 in soli tre mesi a Roma, Io sono un anarchico vede la nascita di Michele Apicella, l’alter ego dell’autore in tutte le prime opere della sua carriera: un sessantottino cinico e irriverente che, pur cambiando di film in film mestiere e condizione sociale, mantiene sempre la sua sprezzante carica moralistica sul mondo che lo circonda.
Ancora più del precedente, Ecce Bombo ottiene un isperato successo di pubblico, incassando oltre due miliardi di lire con un costo di produzione di soli 180 milioni. Presentato al Festival di Cannes, è la definitiva consacrazione del regista, che cosparge la trama frammentata della pellicola con le sue perle di cinismo che pian piano entrano a far parte del comune parlare. Moretti si conferma un autore fresco, perfettamente in linea con i tempi. La voce tanto attesa di una generazione che sta cercando di elaborare uno dei più complessi e travagliati momenti politici della storia italiana.
Il 33enne che dirige e interpreta La messa è finita, uscito nel 1986, è un regista navigato che ha già alle spalle un decennio di carriera e un Leone d’argento (per Sogni d’oro). Per la prima volta smette i panni di Michele Apicella per calarci nella vicenda di Don Giulio, un giovane prete che dopo una missione umanitaria torna a Roma per riallacciare i contatti con amici e parenti. Moretti tornerà ad affrontare il tema religioso quasi un trentennio dopo, con Habemus Papam, ma qui è già perfettamente in grado di sfruttarlo per entrare nelle maglie della nostra società, indagandone gli aspetti più contraddittori. Il film si aggiudica il prestigioso l’Orso d’argento – Gran premio della giuria a Berlino.
Raggiunta “splendidamente” la mezz’età, Moretti decide di raccontarsi in prima persona, apertamente e senza filtri. Ormai riconosciuto come una delle voci più rilevanti del panorama culturale italiano, porta al Festival di Cannes – vincendo il premio per la regia – un film in episodi in cui nei panni di se stesso gironzola in Vespa per Roma, va alle scoperte delle più belle isole italiane e, infine, affronta una lunga e dispendiosa battaglia contro una malattia tanto reale quanto misteriosa. Il film è un contenitore in cui inserire le sue riflessioni sulla vita, l’arte e la società italiana; un diario aperto a se stesso e al pubblico, sempre più vasto e desideroso di ascoltarlo.
Esiste un Moretti moralizzatore ed esiste un Moretti narratore, quello che nel 2001 regala all’Italia la sua 12ma e, per il momento, ultima Palma d’oro. La stanza del figlio è un racconto struggente, cinema puro nella sua essenzialità. Il racconto del lutto più terribile, quello per la perdita di un giovane figlio, strappato alla vita con improvvisa brutalità: il dolore incomprensibile, il senso di colpa, il bisogno di rielaborare la realtà. L’eleganza con cui questa storia è messa in scena ci mostra un autore che ha ormai raggiunto la più profonda maturità, che sa toccare le corde giuste senza mai strafare, andando direttamente al nucleo conflittuale dei suoi personaggi.
Con Il caimano, per la prima volta, Moretti affida il ruolo di protagonista a un altro attore, il fidato Silvio Orlando, che veste i panni di un regista di pellicole di serie B in crisi che si trova fortuitamente a girare un film sull’allora intoccabile Berlusconi. Una scelta carica di senso, soprattutto perché l’autore si prende il ruolo più difficile: quello dell’attore che interpreterà il discusso imprenditore e politico in una sequenza finale a dir poco memorabile. Ne Il caimano l’aperta critica di stampo politico si arricchisce grazie al linguaggio meta-cinematografico che tornerà in seguito, sia in Mia madre – in cui ancora una volta si affida a un’altra attrice protagonista, Margherita Buy – che ne Il sol dell’avvenire.
L’ultimo titolo della filmografia di Moretti va citato anche solo perché rappresenta il compendio di tutta la sua carriera. Non a caso il protagonista è ancora una volta un regista, che si chiama proprio come l’autore, Giovanni, intento a girare un film sulla crisi del Partito Comunista Italiano durante la rivoluzione ungherese del 1956. Il piano narrativo del film e del suo backstage si alternano in un sottile gioco di richiami, infarcito di tutto il meglio del repertorio morettiano: i monologhi in macchina, le frecciatine pungenti, le sequenze musicali, il contesto romano, gli attacchi espliciti al mondo della cultura e della politica. Circondato dagli attori e amici più importanti della sua vita – come si vede nella toccante scena finale – Nanni Moretti gira il suo testamento artistico: un omaggio al suo stesso cinema che funziona meglio di qualunque articolo o recensione che un giornalista possa mai dedicargli.
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