Giuseppe Tornatore: la mia Sicilia che parla al mondo


VENEZIA – Aveva ventotto anni Giuseppe Tornatore quando lasciò la sua Sicilia per il continente, contraddicendo l’avvertenza dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che consigliava di andarsene non ancora compiuti i diciotto anni, per non assorbire tutti i difetti dei siciliani. Meglio così perché quella terra è diventata fertile fonte di ispirazione di alcuni dei suoi film da Nuovo cinema Paradiso, passando per L’uomo delle stelle e Malèna, fino a Baarìa che apre il Concorso di Venezia 66.

Baarìa racconta la storia di una povera famiglia di Bagheria, attraverso tre generazioni dal fascismo fino agli anni ’70, e della comunità di questo paese in provincia di Palermo. Un grande affresco, scandito dagli eventi sociali e politici di quel periodo: la miseria, la dittatura fascista, la guerra, la violenza mafiosa, l’occupazione delle terre, l’impegno politico del protagonista Peppino/Francesco Scianna nel Partito comunista, la condizione delle donne a cominciare da Mannina/Margareth Madè, moglie di Peppino, la fine del sogno di palingenesi sociale, la ribellione sessantottina.

Un grande affresco, contrappuntato dalla colonna musicale di Ennio Morricone che ha composto per l’occasione quasi 30 motivi originali, e fatto di immagini di volti e luoghi ormai cambiati tanto da spingere Tornatore a un impegnativo e costoso lavoro di ricostruzione di Bagheria in una fabbrica dismessa alle porte di Tunisi.

Che ci troviamo di fronte a un kolossal che forse potrà rappresentare l’Italia all’Oscar per il film straniero lo testimoniano alcune cifre: 9 mesi di preparazione, 12 mesi di costruzioni scenografiche, 25 settimane di riprese, 63 attori professionisti, 147 attori non professionisti, 35mila comparse. Costato 25 milioni, Baarìa prodotto da Tarak Ben Ammar e da Medusa Film che lo distribuisce con oltre 450 copie il 25 settembre, esce in due versioni: quella in siciliano stretto per la Sicilia, (anche all’estero con i sottotitoli), l’altra in siciliano italianizzato per tutte le altre sale.

“Baarìa” è un film sulla Sicilia e non solo?
E’ un film su un paese siciliano che finisce per essere l’allegoria di tutti i luoghi in cui ognuno di noi è nato e ha vissuto. Tutti gli abitanti della provincia vivono il loro paese come centro del mondo, da sempre è così. I piccoli centri di provincia sono uguali dappertutto, un microcosmo che aiuta a capire e a interpretare quanto accade a distanza, nell’universo. Baarìa insomma vuole parlare a tutti.

Un film che covava da tempo?
Da anni mi dicevo che questo mondo fatto di frustrazioni, utopie, allegria, dolore e risate che mi sentivo addosso sarebbe potuto diventare una pellicola, ma pensavo di realizzarla a 60 anni quando si ha un buon rapporto con la memoria. Ho fatto l’errore di parlarne con Giampaolo Letta. E’ nata così l’idea di raccontare un coro di personaggi visti all’interno di un paese. Il film è sincero, affronta la delusione la sofferenza di chi ha vissuto l’intera vita per un ideale politico di giustizia sociale.

Lei non ha rinunciato all’ironia pur affrontando temi importanti.
Fin dall’inizio ho pensato che il film dovesse oscillare tra ironia, anzi comicità ove possibile e dramma. Un tempo i produttori dicevano che un film era buono se riusciva contemporaneamente a far ridere e piangere. Nella vita si può ridere di tutto, anche di fatti tragici, come nella scena della morte di Cicco, una delle mie preferite.

Il film ci dice anche quanto sia importante la passione civile e morale.
Sono cresciuto in una famiglia che mi ha insegnato a rapportarmi con il mondo, con gli altri. Oggi quella passione si è purtroppo persa, il Paese è cambiato molto in 60 anni. Sarebbe bello che anche oggi si insegnasse ai propri figli l’importanza della libertà e del rapporto con la collettività.

“Crediamo di abbracciare il mondo ma abbiamo le braccia corte” dice il padre al figlio. Che vuole intendere?
Tante cose diverse tra loro. Forse esprime la consapevolezza dei nostri limiti o della superbia che spesso manifestiamo. O ancora ci fa capire la differenza tra ciò che vorremmo fare e ciò che possiamo fare.

 

In chiusura con i titoli di testa passano immagini e voci, di che si tratta?
Di filmini in super8, in bianco e nero e a colori, che ho girato tra i 10 e gli 11 anni, di frammenti di registrazioni in voce fatte sempre da ragazzo. Ascoltiamo i poeti Ignazio Buttitta e Giacomo Giardina, Renato Guttuso, Dacia Maraini, Federico Scianna, mio padre, un pastore, l’onorevole Giuseppe Speciale, il consigliere comunale più anziano di Bagheria quando io ero il più giovane, entrambi del Pci. E poi ci sono voci e rumori del paese, utilizzati come una partitura.

 

Sul finale il protagonista Peppino spiega al figlio adolescente chi è un ‘riformista’ usando l’immagine di colui che s’accorge che non serve a nulla battere la testa contro un muro.
Questa definizione è semplice e utile a promuovere una riflessione sull’oggi, sul ruolo della sinistra. Del resto cercare di ottenere tutto e subito in modo drastico, spesso non porta bene, occorre il buon senso. Oggi il mondo non è spaccato come un tempo, prevale la convivenza tra persone che la pensano in modo differente. Può sembrare folle se pensiamo alle vicende politiche attuali, ma non lo è.

 

Silvio Berlusconi ha definito il suo film ‘un capolavoro’ invitando tutti ad andarlo a vedere, che ne pensa?
Non ho letto questa dichiarazione, ma non sapevo che facesse il critico cinematografico. Ma non sono sorpreso, per una persona così complessa c’è spazio anche per questo mestiere, purché lo faccia bene. Certo quando qualcuno parla bene del tuo film, fa sempre piacere. Il settimanale L’Espresso ha scritto maliziosamente che Berlusconi ha visitato il set, in verità io non l’ho mai incontrato. Come produttore, se lo è stato, il suo giudizio di ieri è stato un po’ intempestivo, avrebbe fatto bene a esprimerlo più in là.

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02 Settembre 2009

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