Giuseppe Tornatore: “Con la musica il set diventa un luogo sacro”

Il regista siciliano è ospite del Festival Creuza de Ma' per parlare del rapporto tra cinema e musica


CARLOFORTE – Alcune immagini del documentario di Gianfranco Cabiddu su Nuovo Cinema Paradiso, una sorta di carta di identità di Giuseppe Tornatore, all’epoca semi esordiente, girata ad uso del pubblico americano. Vediamo le interviste al giovanissimo Peppuccio, al produttore Franco Cristaldi, all’interprete Philippe Noiret. Si apre così l’incontro tra il regista siciliano e i giovani che partecipano ai seminari di Creuza de Ma’, futuri registi e musicisti alla ricerca di un’ispirazione e di un linguaggio comune. Tra le brevi interviste ce n’è anche una a Ennio Morricone in cui il grande compositore racconta che la sua prima risposta alla proposta di scrivere le musiche per Nuovo Cinema Paradiso fu un no, poi trasformato dopo la lettura di quella sceneggiatura che per tutti, dal produttore all’attore protagonista, costituì una folgorazione.

Tornatore sull’Isola di San Pietro per Creuza de Ma’ non era mai venuto, nonostante la lunga e solida amicizia con Cabiddu. Risale ai primi anni ’80, all’epoca nessuno dei due aveva ancora esordito, condividevano un appartamento su Viale Palmiro Togliatti, a Roma, Peppuccio andava a parcheggiare il macchinone scassato che suo padre gli aveva prestato dentro gli studi di Cinecittà. Fu quello uno dei primi incontri con il cinema romano, insieme al desiderio di entrare al Centro Sperimentale, mai appagato. “Ero venuto a Roma per il servizio militare – racconta Tornatore a Cinecittà News – con l’idea di studiare cinema. Non sono mai entrato al Centro Sperimentale, ma l’amicizia con Gianfranco e altri è stata la nostra scuola. Ricordo anche di aver missato a Cinecittà, qualche tempo dopo, un mio lavoro per la Rai. Nello studio accanto c’era Marco Bellocchio che faceva Gli occhi, la bocca. In un altro c’era Franco Rossi impegnato in una serie tv che mi trattò malissimo”.

“Il mio rapporto col cinema – racconta ancora – nacque la prima volta che entrai in una sala, a sei anni. Rimasi folgorato. È importante l’età perché ancora non sapevo leggere e non capivo i titoli di testa, però piano piano imparai a distinguere qualche parola finché chiesi a mio padre, che vuol dire regia? Il regista è quello che fa tutto il film, mi disse. Ecco io voglio essere regista”. La sua lezione – non gli piace definirla masterclass – comincia con un dato statistico. “Come numero di film con Morricone il Guinness ce l’ha Montaldo, ma forse per periodo di collaborazione e frequentazione, se calcoliamo anche le altre cose, forse mi avvicino a quel record”. E’ un rapporto così intimo e misterioso da aver dato vita a un film, Ennio, che ha incantato tutti: spettatori, critici, appassionati di cinema, musicisti.

Creuza de Ma’ è un festival irripetibile, unico.

Più che un festival mi sembra un luogo di ricerca, e questo lo rende unico. Partecipano tanti giovani che stanno costruendo la loro carriera. È molto utile interrogarsi sul rapporto tra cinema e musica, lo trovo molto moderno. La musica per il cinema è musica a tutti gli effetti, musica contemporanea.

Come definirebbe il rapporto tra compositore e regista?

È un rapporto misterioso, l’incontro tra due linguaggi così diversi tra loro che non ci sono schemi o ricette. Penso a Morricone, a volte accettava il silenzio del regista, come accadde con Pasolini, altre volte non voleva essere lasciato da solo. Ci sono musicisti che compongono senza dialogare col regista, a volte un regista che capisca bene la musica avrà un rapporto più difficile col compositore. Deve esserci una battaglia navale tra questi due che non sanno cosa sta facendo l’altro. Io ho sempre sostenuto che la musica dovesse avere gli stessi diritti di cittadinanza della sceneggiatura o della fotografia.

È vero che lei usa la musica fin dall’inizio della costruzione del film?

Ho sempre cercato un confronto e questo a Ennio piaceva. In Nuovo Cinema Paradiso scrisse le musiche prima che io girassi, le registrò e le usai sul set e durante il montaggio. Il film non era in presa diretta, visto che c’erano attori di varie lingue. La musica sul set creava un clima religioso. In genere un set è un luogo rumoroso, dove il fracasso non finisce mai, ma la musica impone immediatamente un silenzio sacrale e questo metteva tutti – gli attori e persino i tecnici – nelle migliori condizioni di esprimersi. Il mio capo macchinista amava girare con la musica perché lo aiutava a mantenere una certa armonia nei movimenti di macchina. Da allora mi sono persuaso che fosse la strada giusta e ho sempre seguito questo sistema, talvolta coinvolgendo Ennio già durante la fase della scrittura.

Cosa porta questo atteggiamento?

Ritengo che sia l’approccio più maturo, più sano, mette il compositore nelle migliori condizioni per dare il meglio di se stesso, per non sentirsi un artista che sale sul treno quando è già partito e che in fondo deve semplicemente eseguire quello che in qualche maniera è già stato stabilito dalle esigenze del regista, del produttore, del distributore. Il musicista deve avere più tempo per entrare nel film, per cogliere quegli aspetti che lo stesso regista non sa esprimere a parole. Attraverso questa consapevolezza tirare fuori quella partitura musicale che probabilmente il film già possiede, misteriosamente, tra le righe della sceneggiatura, dell’inespresso che c’è durante la fase caotica della preparazione. Così diventa coautore del film come tutti quelli che partecipano alla realizzazione.

Come ha lavorato alla struttura di Ennio?

Quando ho deciso di fare un documentario su Ennio Morricone, ero attratto soprattutto dall’idea di farlo conoscere e ho deciso di raccontarlo in ordine cronologico anche se era una strada rischiosa. La vita di Ennio non è scespiriana, non succedono cose drammatiche, però c’è un conflitto interiore interessante. Mi sono aggrappato a questo per dare vivacità a un racconto che altrimenti sarebbe stato statico. Parlo del suo conflitto con la musica concepita come intrattenimento. Venne costretto da suo padre a suonare la tromba per campare, fin da bambino. Questa cosa l’aveva talmente umiliato che ha sempre associato intrattenimento e fame. Appena può studia composizione e scopre una musica diversa, la musica dodecafonica che applica alla musica tonale. Ma, ironia della sorte, diventa famoso proprio per le sue melodie. Capisce che lo steccato tra la musica popolare e la musica colta va abbattuto. Ama la contaminazione e la trasversalità e crea un conflitto con se stesso, come un pugile che detesti dare pugni.

Come ha sviluppato l’intervista portante?

È stata quasi una seduta di psicoanalisi, una conversazione lunga undici giorni. Lui mi diceva cose che già sapevo, che avevo appreso nei decenni della nostra frequentazione. Ma quello che mi ha colpito è stato il suo raccontarsi senza veli davanti a una piccola troupe di sole tre persone. A volte i due ragazzi mi guardavano sorpresi, c’era emozione. Ero consapevole che ci fosse qualcosa di fuori dall’ordinario. Non ho cercato a priori quell’emozione, è stata un dono di Ennio. Quella cifra empatica, semplice, amichevole, basata sulla fiducia che aveva sempre avuto nei miei confronti si è ricreata davanti alla macchina da presa.

Si aspettava il grande successo di questo film? E come lo spiega?

No, non me l’aspettavo. Come fai a pensare che il tuo film farà due milioni e 700mila euro? È un documentario – ed è vero che il documentario sta vivendo una stagione d’oro però è pur sempre qualcosa che evoca la noia, l’atteggiamento didattico. Poi è molto lungo, quasi tre ore. Parla di musica in modo tecnico. Ancora oggi non lo so. Penso che il miracolo l’abbia fatto lui: dopo essere stato parco e introverso per tutta la vita, si è lasciato andare e si è raccontato senza pudore.

Qual è stata l’intervista che l’ha più colpita tra le tante realizzate per Ennio?

Quella al compositore Boris Porena, ultimo superstite degli studenti di musica al conservatorio del corso di Morricone. Mi ha raccontato cose che non conoscevo esprimendo bene quel conflitto tra la duttilità e la modernità della mente di Morricone, che già alla fine degli anni ’50 aveva capito che la demarcazione tra musica popolare e colta era antistorica e si doveva lavorare per rendere più accessibile la musica contemporanea e più raffinata quella popolare. Porena ci fa capire come siano stati via via consapevoli che Morricone aveva ragione. Sono contento che abbia fatto a tempo a vedere il film perché poi è recentemente scomparso.

So che sta lavorando al suo prossimo film. Dove lo girerà?

Si svolge tutto all’estero. Lo sto preparando da tempo ma per problemi di Covid la mia partecipazione in presenza è stata limitata, ho dovuto sperimentare il lavoro a distanza che è molto faticoso ma permette anche di risparmiare sui tempi. Come sempre nella tecnologia ci sono due aspetti, dà e toglie.

Ha già deciso chi sarà l’autore delle musiche?

A suo tempo si saprà. Non voglio dire altro. Tutte le volte che ho anticipato un progetto, non si è più fatto.

Cristiana Paternò
23 Luglio 2022

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