Parlare con Giuseppe Rotunno è come sfogliare un annuario degli ultimi 50 anni del cinema mondiale. Titoli, registi, attori che ha incontrato sono veri e propri miti, non solo della storia, ma anche dell’immaginario filmico di ognuno. Per la Guggenheim è un onore accoglierlo. E sfidiamo chiunque a dichiarare il contrario.
Come Dante Spinotti, anche Rotunno nell’apprezzare l’omaggio newyorkese ai cinemotographers italiani (Guggeheim, 6 aprile-28 luglio), sottolinea in primo luogo che si tratta di un riconoscimento a tutto il cinema italiano. “Mi fa piacere pensare che la rassegna di alcune nostre foto di set possa essere utile a esaltare il lavoro, l’impegno e la visibilità di tutti. La fotografia di fatto è il primo impatto riconoscibile di un film. Il cinema si gode attraverso lo sguardo”.
La mostra attraversa diverse generazioni. Si tratta di una piccola opzione di continuità tra passato e futuro?
Alla Guggehneim sono rappresentate almeno due diverse generazioni. Ma bisogna andarci cauti a parlare di continuità. Il risveglio del nostro cinema oggi è palpabile. Spero continui. Il mio consiglio ai più giovani è di studiare. Occorre maggiore professionalità. La mostra può essere un’occasione. Ma è necessario migliorare le condizioni di lavoro. Il nostro modo di pensare il film.
Come giudica l’attuale stagione cinematografica italiana?
Ho visto almeno sei bellissimi film, ma sono pochi. Un tempo, non dico tutti, ma anche quelli più scadenti avevano il loro mercato. Chi fa questo mestiere non deve mai trascurarne gli aspetti commerciali.
Per questo lavora spesso anche fuori dal nostro paese?
Ho iniziato a lavorare all’estero nel 1958. Dopo la fortuna guadagnata con Le notti bianche di Visconti: il mio primo film più impegnato, con una fotografia più legata al racconto. Fu durante quel periodo che conobbi il produttore, nonché regista, Stanley Kramer, già noto per aver scoperto Marlon Brando, tanto per dirne uno. Era a Roma per visionare un’attrice e fu colpito dal mio bianco e nero. Da allora ho girato, per esempio, Montecarlo Story di Sam Taylor, con Vittorio De Sica e Marlene Dietrich e, nel 1959, On the beach diretto dallo stesso Kramer e interpretato da Gregory Peck, Ava Gardner, Fred Astaire e Anthony Perkins.
Insomma, i direttori italiani della fotografia sono i più bravi o i più esportabili?
Di certo si tratta del valore autoriale più esportato dal nostro paese. Ma il risultato è sempre legato alla resa finale. Un brutto film con una bella fotografia non ha mai convinto nessuno.
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