Il ponte dei Frati Neri di Londra: simbolo inquietante dei tanti misteri d’Italia, dell’intreccio tra politica, affari, criminalità e gerarchie vaticane.
Qui, il 18 giugno 1982, viene ritrovato il cadavere di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, iscritto alla Loggia P2 di Licio Gelli e condannato per esportazione di capitali clandestini.
A vent’anni di distanza, la sua morte rimane ancora oscura.
E sotto quel ponte si è conclusa anche l’odissea produttiva, durata ben 15 anni, del film I banchieri di Dio di Giuseppe Ferrara (Il sasso in bocca, Il caso Moro) che riporta in primo piano la figura di Calvi.
Tutto è cominciato nel 1987, Vittorio Cecchi Gori prima e Mauro Berardi poi erano interessati al progetto.
Rinunciarono e la palla passò a Enzo Gallo della Sistina Cinematografica che l’ha portato a termine con un budget di 7 miliardi.
Calvi ha il volto di Omero Antonutti e la sua storia s’intreccia a doppio filo a quella di monsignor Marcinkus (Rutger Hauer), presidente dello Iol, la banca vaticana, dei faccendieri Francesco Pazienza (Alessandro Gassman) e Flavio Carboni (Giancarlo Giannini), di Licio Gelli (Camillo Milli) e Michele Sindona (Franco Oliviero), di Giulio Andreotti e Bettino Craxi.
Del film, già al centro di infuocate polemiche, parlano Giuseppe Ferrara e la cosceneggiatrice Armenia Balducci.
Quali sono le modifiche centrali rispetto alla prima sceneggiatura?
Balducci. Il progetto è nato dopo il successo de Il caso Moro. L’abbiamo ideato insieme a Gian Maria Volontè (di cui Balducci è vedova, ndr). Lui era molto incuriosito dalla figura di Calvi e sarebbe stato felice di interpretarlo. Nella prima sceneggiatura Calvi era meno definito, faceva parte dell’inquietante scenario della prima Repubblica. Ma il film sarebbe risultato troppo distaccato e didascalico e allora abbiamo enfatizzato la sua fragilità, la relazione con la moglie, il contrasto tra il Calvi privato e quello pubblico.
Quali fonti avete consultato?
Ferrara. Fonti processuali, parlamentari, giornalistiche. Una mole enorme di materiale. Poi abbiamo incontrato i familiari di Calvi. I dialoghi tra lui e la moglie (interpretata da Pamela Villoresi, ndr) vengono in gran parte dalla biografia della signora Calvi pubblicata su “Esquire”.
Balducci. Certo, ci siamo concessi un margine creativo nella stesura della sceneggiatura che, tuttavia, non nuoce affatto alla credibilità del racconto. Comunque è tutto documentato: non siamo così ingenui da rischiare querele.
Una didascalia del film avverte “Per doveroso rispetto, il volto del Santo Padre con compare”. Perché?
Ferrara. L’assenza del viso del Papa coincide con la scelta di tirarlo fuori, almeno dal punto di vista figurativo, da quelle vicende. Certo, poi si vede molte volte di spalle ed è evidente il legame con Marcinkus, il suo braccio destro finanziario. Non è stato facile mettere in scena quella che il vaticanista Zizola definì, in una lettera del 1988, “la degenerazione del potere ecclesiastico”. Ma questo non è un film storico, quegli eventi ci riguardano tuttora, cattolici compresi.
Su Marcinkus ho una mia teoria: era una spia atlantista, un bardo dell’anticomunismo. In quel periodo molti potenti, tra cui Calvi e Sindona, credevano di avere il lasciapassare per azioni di ogni genere in nome della lotta ai comunisti. Sbagliavano perché erano pedine di un gioco più grande di loro.
Tra gli attori e i personaggi reali c’è una somiglianza fisica fin troppo marcata…
Ferrara. Tutto, a partire dai volti, deve contenere la verità. Marcinkus era calvo e mi è molto dispiaciuto quando Rutger Hauer non ha accettato di farsi tagliare i capelli. Giulio Andreotti è un ministro grottesco ma, tutto sommato, usciva molto più malconcio da Il caso Moro.
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