Giustizia o verità? C’è un labile confine tra questi due concetti cardine della nostra civiltà, che riverberano nella sfera etica personale di ciascuno. Così come c’è un sottile spartiacque tra innocenza e colpevolezza. Lo dimostra, come un teorema avvincente e geometrico, ma anche poetico e carico di umanità, il nuovo film di Clint Eastwood, Giurato numero 2, che molti dicono sarà l’ultimo del 94enne attore e regista – al suo attivo ha 42 regie, tra cui diversi titoli in zona capolavoro da Million Dollar Baby a Gran Torino. Clint ha sviluppato uno stile inconfondibile, semplice e diretto nell’enunciato, quanto complesso nel proporre dilemmi morali inestricabili. Anche stavolta pone una domanda direttamente allo spettatore americano (e non solo americano), interrogandoci con spietata lucidità su una scelta che potrebbe riguardare ciascuno di noi e non solo le istituzioni, i poteri, un sistema giudiziario che, se non è perfetto è almeno il migliore possibile. Ma che riguarda proprio il singolo cittadino, magari buon padre di famiglia ma non privo di qualche scheletro nell’armadio.
Una concezione del mondo e una cognizione del dolore che trapela ad ogni fotogramma nella sceneggiatura dell’esordiente Jonathan A. Abrams. Un plot a pieno titolo ascrivibile al genere processuale. Fin dal titolo il riferimento è al classico La parola ai giurati (portato al cinema nel 1957 da Sidney Lumet e nel 1997 diretto per la tv da Bill Friedkin), in questo caso tocca ai dodici “angry men” prendere una decisione attorno all’omicidio di una ragazza (Francesca Eastwood), trovata cadavere in una scarpata scoscesa. La morte è avvenuta durante una notte di tregenda. Poco prima gli avventori di un bar sulla strada l’avevano vista litigare di brutto con il fidanzato, tipo poco raccomandabile con un passato da spacciatore.
La vicenda processuale si incardina attorno al personaggio del giurato #2 (Nicholas Hoult, sempre in scena, bravissimo) che sta per avere un figlio dalla moglie Allison (Zooey Deutch), dopo aver perso una coppia di gemelli, e che frequenta gli Alcolisti Anonimi per un problema di dipendenza da cui sembra ormai uscito. “Sono cambiato, ho rimesso in piedi la mia vita”, spiega a un certo punto durante le interminabili sedute di giuria. Perché il caso, che sembrava di una banalità disarmante nell’esposizione del pubblico ministero in carriera con ambizioni politiche e fortemente impegnata contro la violenza domestica (Toni Colette) si rivela un bel po’ intricato. E se l’avvocato d’ufficio (Chris Messina) è convinto intuitivamente dell’innocenza del suo cliente, il giurato numero 2 fa di tutto per scardinare le certezze dei colleghi, che vorrebbero solo sbrigarsi per andarsene a casa. Ognuno di loro applica le sue manie e i suoi pregiudizi all’imputato: c’è chi odia gli spacciatori per aver perso un fratello, c’è una signora che segue tutte le puntate di True Crime, c’è un ex poliziotto in pensione che ritiene le indagini svolte piuttosto sommariamente e si mette a ficcanasare.
Nel frattempo Justin, attraverso una serie di flashback ben dosati, torna a quella notte del 25 ottobre, tragica anche per lui per motivi che non è giusto rivelare. Basti dire che in quella strada buia sotto la pioggia torrenziale c’era anche lui come potrebbe esserci stato ognuno di noi. E la giustizia potrebbe rivelarsi anche ingiusta (dura lex sed lex) ma alla fine, almeno nell’universo di Clint, deve necessariamente trionfare.
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