Giuliano Montaldo: “Le bombe non cambiano la storia”


G.MontaldoÈ libertà l’ultima parola del film che ha riportato Giuliano Montaldo al cinema quasi vent’anni dopo Tempo di uccidere. “Libertà, forse l’unica cosa che conti veramente”. Una parola grande e ambigua, che in politica viene declinata in modi diversi, a destra come a sinistra? “Una parola che per me ha un significato netto, chiarissimo”, ci dice il regista, ex presidente di Rai Cinema, che ha preso di petto Fedor Dostoevskij, sperando che molti escano dalla sala con la voglia di rileggere la sua opera immensa. I demoni di San Pietroburgo esce con 01 Distribution in 100 copie il 24 aprile: è un film politico, che contiene frasi programmatiche come “far conoscere e proteggere l’arte è uno dei compiti dello Stato”. Ma è anche una prova di cinema come in Italia non fa quasi più nessuno. Scritto da Monica Zapelli e Paolo Serbandini, da un’idea di Andrej Konchalovskij, è fotografato da Arnaldo Catinari. Le scene sono di Francesco Frigeri, che ha ricostruito la Russia del XIX secolo in Piemonte. Tra gli attori: Miki Manojlovic, lo scrittore devastato da sensi di colpa e dalle crisi epilettiche, Carolina Crescentini, la giovane e timida stenografa che diventerà sua moglie, Roberto Herlitzka, l’inquisitore a suo modo illuminato, Filippo Timi, il terrorista pentito, Anita Caprioli, l’inafferrabile anarchica che vuole attentare alla vita dell’arciduca. Due meccanismi a orologeria s’intrecciano nella vicenda: un attentato imminente e l’obbligo di consegnare in tempo un manoscritto.

Cosa c’era nell’idea iniziale di Konchalovskij e perché non è stata realizzata in Russia?
È stata una lunga avventura, quella del film. Meglio di me la può raccontare Paolo Serbandini, che mi fece leggere questo progetto anni fa. Allora aveva una struttura più dilatata con lo scrittore che viaggiava in Europa da un casinò all’altro: ma i sovietici non amavano così tanto Dostoevskji e passammo diverso tempo in Russia inutilmente, fino a rinunciare. Adesso spero che Konchalovskij lo veda e gli piaccia, invece magari mi toglie il saluto… Ma se non gli piace, anch’io parlerò male dei suoi film.

Il film riecheggia in qualche modo il tema dei cattivi maestri, un tema ancora attuale?
I film tornano spesso attuali, come è accaduto con Sacco e Vanzetti quando si è cominciato a parlare di moratoria della pena di morte. Ma stavolta, più che di cattivi maestri, parlo dell’intolleranza, come ho fatto spesso. Mi riferisco alla mia intolleranza alle bombe e alla violenza, alla mia intolleranza verso coloro che credono che si possa cambiare il corso della storia uccidendo. Sono falsi ideali e cui Dostoevskij si sottrae: da giovane era stato condannato a morte per quello che scriveva, condanna poi trasformata in dieci anni di lavori forzati in Siberia, ma durante quegli anni vide la violenza, l’ignoranza e la disperazione e capì che l’itinerario giusto era conoscere meglio l’uomo per cambiarlo.

La lunga esperienza di presidente di Rai Cinema l’ha aiutata a chiudere produttivamente il progetto?
Mentre ero presidente di Rai Cinema non ho fatto neanche una fotografia. Subito dopo aver lasciato l’incarico ho iniziato a lavorare al progetto, ma un paio di produttori, prima di Elda Ferri, sono fuggiti dalla finestra, come quando parlavo di Sacco e Vanzetti e Ponti mi chiese se era una ditta di import-export. I miei film mi danno soddisfazione soprattutto quando passano alle due di notte in tv e lo vengo a sapere dal mio garagista la mattina dopo.

Il film è anche molto centrato sul rapporto tra lo scrittore e due personaggi femminili: la stenografa che lo aiuta nella stesura della novella “Il giocatore”, da consegnare con la massima urgenza all’editore, e la rivoluzionaria che un tempo l’ha ammirato e che oggi lo considera quasi un traditore.
Sono due rapporti d’amore, sicuramente. La stenografa prova per lui una vera e propria dedizione, ma anche l’altra lo ama, seppure con forti contraddizioni.

Perché è rimasto così a lungo senza tornare sul set?
Ho avuto un piccolo choc con Tempo di uccidere. Volevo girare in Etiopia, nei luoghi raccontati così bene da Ennio Flaiano, ma poi non ce lo hanno permesso. Ci siamo spostati in Kenya, ma costava troppo. Insomma, siamo finiti nello Zimbabwe e mi sono sentito svuotare dentro, era come costuire San Pietroburgo a Marrakesh. Subito dopo mi sono messo da parte e ho scoperto il teatro lirico.

Ci sono legami tra la vicenda dei “Demoni” e la politica italiana di oggi?
Mentre scrivevamo la sceneggiatura, ogni tanto ci veniva voglia di stampare qualche frase e inviarla ai nostri politici. In tutta la campagna elettorale non ho mai sentito pronunciare da nessuno la parola cultura.

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21 Aprile 2008

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