Giorgio Van Straten


È anche uno scrittore, ma ci tiene a separare le sue attività. Giorgio Van Straten, fiorentino, classe 1955, è presidente dell’Agis dal 21 luglio 1998 (la carica è stata rinnovata fino al 2002) e ha di recente conquistato il premio Viareggio per Il mio nome a memoria, edito da Mondadori, ex aequo con La forza del passato di Sandro Veronesi (Bompiani). “Non posso dire che con chiunque avrei condiviso volentieri questo premio – scherza Van Straten – ma con lui sì. Siamo tutti e due toscani e le tematiche affrontate sono comuni”. All’Agis è approdato naturalmente, visto che dal 1985 è presidente dell’Orchestra Regionale Toscana e consigliere della Biennale dal ’97, nonché già presidente del coordinamento fra le Associazioni Musicali e di Danza.
Adesso l’Agis ha approvato la Carta dello Spettatore. Di che si tratta? “Da tempo – spiega il presidente – pensiamo alla qualità di organizzazione dell’impresa. Soprattutto in considerazione delle attività particolari di cui ci occupiamo, come sono quelle di spettacolo. Quello della Carta dei servizi è solo il primo livello”.

Perché una Carta dello Spettatore?
La Carta partecipa a un processo di produzione, per quanto riguarda altre discipline, e fruizione, per ciò che concerne il cinema, che è in atto. Offre delle garanzie sul prodotto finale. Il livello successivo è l’accreditamento professionale. Esistono determinati standard, come la comodità delle poltrone o il livello di acustica, che andranno formalizzati. I requisiti tecnici saranno un passo successivo. Il nostro è un lavoro delicato, anche artigianale e creativo. Ma va ugualmente standardizzato, per evitare sprechi nelle risorse e nei tempi di realizzazione. Siamo partiti dall’elemento più semplice, la sala, che mette in contatto esercente e cliente. Questo naturalmente non riguarda la qualità della pellicola, la cui responsabilità – per quanto riguarda l’esercente – esiste ma non può essere normalizzata.

Cosa cambierà per il pubblico in sala?
La Carta stabilisce formalmente dei diritti che lo spettatore ha nei confronti di un servizio. Chi va al cinema non è più considerato una “risulta finale”, ma verrà trattato con estrema attenzione. Questo accade in realtà già da vari anni. La differenza è che prima d’ora questo non era mai stato sancito. Chi si faceva rimborsare il biglietto per negligenze nel servizio era l’eccezione. Spesso ci sono disservizi sulle prenotazioni, chi l’ha detto che una tessera gratuita non dà diritto alla prenotazione? Se così fosse chi prende la prenotazione deve specificarlo. Lo spettatore deve sentirsi tutelato. La carta dovrà essere mostrata in tutti gli esercizi. Il proprio diritto diventa chiaro, automatico. Si tratta di un rafforzamento del ruolo dello spettatore.

Perché questa iniziativa oggi?
Avvertiamo la necessità di un cambiamento. Tutte le attività di spettacolo si stanno regolarizzando. C’è stata una crescita di richiesta di tutela da parte dei consumatori, anche perché il nostro paese in questo è piuttosto arretrato. Abbiamo deciso di non farci imporre le cose, ma stabilire noi dei criteri, dimostrando una certa sensibilità nei confronti delle nuove tendenze. Un’associazione di categoria deve tutelare i propri soci, ma anche governare il cambiamento.

Van Straten, parliamo di sale. Sono nettamente aumentate negli ultimi anni, soprattutto le multisale. Ma questo non ha portato un aumento degli spettatori. Si verificherà un’inversione di tendenza? Come intendete affrontare il problema?
Sicuramento l’ampliamento del numero di sale comporta un mutamento dell’esercizio. Le sale sono migliorate negli ultimi anni. Le multisale sono sorte soprattutto nelle zone già abbondantemente servite, mentre scarseggiano nelle zone meno fornite, soprattutto al Sud. Il multiplex è un’altra tipologia di offerta, comprende parcheggio, possibilità di mangiare, spesso altre attività. Il problema più importante riguarda le pellicole, non sempre disponibili in un numero di copie sufficiente per una distribuzione capillare. E gli spettatori non aumentano. Anche se la qualità delle sale è cresciuta enormemente c’è ancora da lavorare su questo. Creare specificità a seconda delle tipologie di spettatori.

È anche vero che le monosale continuano a essere di più, a parte nelle metropoli. Intendete salvaguardarle?
In effetti i multiplex rappresentano il 10% del mercato, anche se la cifra aumenta se si parla di incassi. Il problema riguarda soprattutto il prodotto proposto. L’Anteo a Milano, ad esempio, ha tre schermi e può essere considerato una multisala, ma non ha nulla a che vedere con il Warner Village. Come politica intendiamo salvaguardare il segmento di pubblico che non utilizza i multiplex. Sembra un ossimoro, ma si potrebbe anche pensare a un multiplex con una programmazione d’essai. Ci sono determinati prodotti che funzionano soltanto nelle monosale. Ma alla fine del processo in corso, saranno diminuite sensibilmente. Le ricicleremo in vari modi, che vanno dal cambio di destinazione d’uso al Bingo.

Oddio, come negli anni Ottanta, in cui molti cinema si sono trasformati in fermate della metropolitana, banche, grandi magazzini…
Il fenomeno si è già verificato, è vero. Ma negli anni Ottanta le sale chiudevano con una forte rigidità nel cambio di destinazione. Nel momento in cui si trasformeranno, oggi quel tipo di rigidità non è auspicabile. Le grandi monosale potrebbero trasformarsi in monosale con meno posti. Certo, alcune saranno costrette a chiudere.

Per quanto riguarda la programmazione, esistono regole che garantiscano il cinema europeo?
Naturalmente. Nelle sale o multisale con più di 1300 posti complessivi, il 20% della programmazione deve essere di film europei e italiani. Ma io non credo nelle quote. Ci interroghiamo spesso sull’utilità di queste regole. Se obbligo una struttura a inserire film che lì funzionano malino, non aiuto neppure il film. Inoltre, se di un film esistono poche copie e vengono monopolizzate dai multiplex, la sala dove più logicamente dovrebbero essere proposte non può farne uso. Ritengo che i prodotti artistici si debbano difendere da soli, magari con opportuni incentivi. Le quote non sono utili.

A proposito del cinema italiano, a che punto siamo secondo lei? Si svolta? O dobbiamo ancora una volta parlare di crisi?
Alcuni mesi fa sono andato a vedere la versione restaurata di Una vita difficile di Dino Risi. Nel film un giornalista si avvicina a Gassman e gli chiede cosa ne pensa della crisi del cinema italiano. Era il 1961.
Io noto dei sintomi interessanti di risveglio. In questi giorni devo votare il film italiano candidato all’Oscar ed è una delle prime volte che ho l’imbarazzo della scelta. La selezione a Venezia mi sembra una delle migliori degli ultimi anni. Anche dal punto di vista degli incassi ci sono dei segnali interessanti. Il caso di Pane e tulipanidimostra che dobbiamo promuovere il cinema italiano nei confronti del pubblico. Ma anche che la televisione può dare una mano, che i David se trasmessi in un momento ancora utile per la programmazione, possono fare la loro parte.

Eppure sembra che una certa parte della stampa sia ancora schierata “contro”, sfruttando dati anche positivi come boomerang. Com’è possibile e da che dipende?

Chi decide di scrivere di cinema dovrebbe studiare meglio il mercato. Quando si leggono gli incassi bisogna guardare non solo la cifra ma anche la quota per schermo. È quella che dimostra se un film può avere una tenuta lunga. Come nel caso di Placido Rizzotto, I cento passi, Denti, che stanno funzionando. I film americani incassano tanto ma escono anche in più sale. E adesso si attendono produzioni importanti, come Malèna, che potrebbe essere candidato all’Oscar. In alcuni casi per la stampa scatta l’ignoranza, in altri valutazione politiche. In particolare nei confronti dell’erogazione del credito da parte dello stato. È tutto legato a questo. Si scagliano forse contro il cinema italiano giornali filogovernativi?

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15 Ottobre 2000

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