Attore da 21 anni, Giorgio Tirabassi ha iniziato la sua carriera teatrale con Gigi Proietti e Ugo Gregoretti. In televisione ha partecipato alla Tivù delle ragazze. Ora è, in Distretto di polizia, un ispettore capo dai modi integerrimi, un eroe popolare. Al cinema l’abbiamo visto in Verso sera, L’odore della notte, L’ultimo Capodanno e La cena di Ettore Scola, mentre fra poco lo ritroveremo, con un piccolo ruolo, in Paz!, film su Andrea Pazienza diretto da Renato De Maria (regista anche della prima serie di Distretto di polizia).
Intanto Giorgio è diventato regista di un corto, Non dire gatto, scritto insieme a Rossella De Venuto e già vincitore di numerosi premi. Al Genova Film Festival ha ricevuto il premio della critica, quello per la miglior colonna sonora e il secondo premio. A Capalbio ha avuto il riconoscimento formale del pubblico e il premio come miglior corto italiano.
Nelle sale lo vedremo in autunno, abbinato al nuovo film di Enrico Caria, Blek Giek.
Come spiega questo passaggio alla regia?
Stando ogni giorno sul set, ho iniziato ad avere delle mie idee su come si può girare un film. L’aspetto tecnico è quello che più mi ha intimorito, ma sono una persona curiosa. Mi interesso al mestiere degli altri.
Che idee si è fatto sull’uso della macchina da presa?
Prima di tutto non bisogna per forza sbattere la macchina da presa in faccia ai personaggi. Dipende tutto dalla sostanza della storia. Tenuto d’occhio questo elemento, la forma viene fuori. Il cortometraggio, poi, è molto simile al racconto breve: la trama, con il colpo di scena finale, non deve passare in secondo piano.
La colonna sonora, premiata a Genova, è stata composta da Pivio, autore anche delle musiche originali di Harem Suarè, il film di Ferzan Ozpetek, e di Distretto di polizia.
Sì. Ho lavorato bene con lui. Gli ho dato delle indicazioni, volevo che il tema fosse lirico ma bandistico allo stesso tempo. Doveva entrare nello spirito ironico del corto.
Non dire gatto è appena tornato da Capalbio, ma anche Nanni Moretti lo voleva in competizione al Sacher.
Sì, il Sacher però voleva degli inediti e allora ho preferito rispettare l’accordo già preso con Capalbio. Una scelta di cui non mi pento.
Come definirebbe Non dire gatto?
Una commedia dove l’ironia popolare è protagonista. Questo genere di umorismo è una delle cose che mi divertono di più. E’ un modo di ridere che va oltre la semplice pernacchia. I miei personaggi sono modesti, parlano un dialetto romano molto marcato, ma non scadono mai nella risata volgare. C’è invece un certo tipo di commedia che fa un uso becero del romanesco. I “creativi” delle reti televisive sono di avviso contrario, dicono che l’ironia e il surreale non funzionano, cercano storie che si possano capire anche mangiando gli spaghetti. Il contatto con gli spettatori è fondamentale: bisogna saper comunicare anche con il barista. Non dire gatto vuole essere questo.
Quali film italiani l’hanno colpita in quest’ultimo periodo?
La stanza del figlio. Dalla morte del ragazzo in poi il film diventa un vero capolavoro. La misura con cui viene raccontata la morte, la perdita vissuta da una famiglia laica, tutti questi elementi sono raccontati da una grande regia.
Ha prossimi progetti da regista?
Ho già scritto un lungometraggio, ma vorrei fare un altro corto prima. Uno che abbia a che fare con la musica, ma che mantenga lo spirito di Non dire gatto. Poi mi piacerebbe lavorare con Niccolò Ammaniti. Avevamo scritto una sceneggiatura insieme, ma Niccolò s’è fatto un po’ prendere dall’immaginazione. Dentro poche righe di sceneggiatura iniziava a scrivere: “a questo gli salta la testa, poi salta pure la macchina…poi arrivano quelli con i bazooka.” Insomma un minuto di girato sarebbe costato 10 miliardi.
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