Texas ‘46 è un caso politico scoppiato prima ancora dell’uscita del film nelle sale. Andiamo a chiederne le ragioni all’autore. Giorgio Serafini, che ha sempre vissuto all’estero ed entro poco diventerà cittadino americano, in questi giorni è a Roma, impegnato nella presentazione del film e nella preparazione di una serie televisiva per la Titanus dal titolo Orgoglio. Un serial in costume ambientato nel 1911: ventisei ore di registrato da realizzare entro la fine dell’anno. Per il cinema Serafini girerà Jazz, una storia d’amore e una coproduzione europea alla quale partecipano Alessandro Verdecchi della Orango Film, insieme a una società inglese e una tedesca. Mentre per Gabriella Bontempo (Rai Cinema) è già pronto un trattamento su Edda e Galeazzo Ciano. “Un film sul periodo passato dalla coppia a Shangai” fa sapere Serafini, cioè prima degli eventi che li resero tristemente famosi.
Texas ’46 è costato 3 milioni e mezzo di € circa (1 milione e mezzo di € circa è stato ottenuto con il riconoscimento statale di film di interesse culturale nazionale) ed esce in 20 copie.
“Texas ’46″ non è ancora uscito, ma ha già solleticato un editorialista come Giordano Bruno Guerri dalle pagine del “Giornale”. Come mai?
Nel 1990 avevo realizzato un documentario che fu comprato dalla Rai e passò diverse volte su Rai Tre: raccoglieva dichiarazioni dei sopravvissuti al campo di Hereford senza commenti esterni. Alcune di queste testimonianze le ho poi riprese nel film. Il mio approccio, legato ai drammi personali e non all’analisi dei fatti storici, è un primo fatto che gioca a favore di interpretazioni come quella di Guerri. L’altro fatto è che Texas ‘46 è uno dei rari film dove il fascista non è demonizzato. Ma non parlerei di revisionismo.
I prigionieri di Hereford erano fascisti.
I prigionieri di Hereford avevano appena vent’anni, erano stati educati al fascismo e arrestati nel ’42, prima che nascesse un’opposizione. A Hereford gli hanno mostrato cos’era il nazismo, ma non hanno voluto credere a quelli che giudicavano i loro nemici. Tutti, una volta tornati in Italia e toccato con mano la realtà, hanno poi cambiato le loro idee. Gaetano Tumiati, un prigioniero di Hereford diventato poi giornalista di idee socialiste, una volta mi ha detto: “Noi all’epoca eravamo liberi di fare tutto ciò che volevamo”. Intendeva dire esattamente il contrario. Cioè che lui e tutti i suoi compagni avevano l’illusione di poter fare qualsiasi cosa, ma in realtà non avevano operato alcuna libera scelta individuale.
Si considera un antimilitarista?
Non lo sono. Rispetto il percorso delle persone che scelgono di lavorare per la patria. Sono pacifista ma non di sinistra né tanto meno di destra. La mia vuole essere una riflessione sull’ambiguità di molte guerre: dal Vietnam alla Serbia.
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