“Se vuoi cambiare le cose, devi andare dove davvero occorre che le cose vadano cambiate”, dice uno dei personaggi del nuovo film di Giorgio Diritti, Un giorno devi andare, distribuito da Bim in 100 copie il 28 marzo. Così Augusta/Jasmine Trinca decide di andare dall’altra parte del mondo per affrontare il dolore e ritrovare se stessa dopo la perdita del figlio di cui era in attesa, la maternità ormai preclusa e l’abbandono del marito. Il suo viaggio spirituale la porta lontano dalla madre (Anne Alvaro), rassegnata e trattenuta nei sentimenti, in Amazzonia al seguito di suor Franca (Pia Engleberth), missionaria presso i villaggi indios lungo il grande fiume.
Ma quell’evangelizzazione di sapore troppo occidentale le va stretta. La tappa successiva di Augusta è allora nella favela di Manaus dove condivide con gli abitanti le difficoltà e le asprezze quotidiane, la dura lotta per la sopravvivenza. Ma è anche la scoperta che la nostra felicità più che dall’ambiente esterno, dipende innanzitutto dalla condizione interiore. La tappa finale del suo percorso porta la protagonista ad isolarsi nella foresta, a contatto con gli elementi della natura, accettando il dolore e ritrovando l’amore per la vita e per gli altri.
Un giorno devi andare prende spunto, come ricorda uno degli sceneggiatori, Fredo Valla, da una permanenza oltre dieci anni fa in Amazzonia che ha fatto scoprire situazioni e storie tra cui quella di Augusto, un missionario italiano. Da qui Un giorno devi andare prende avvio per interrogarsi sul senso più profondo dell’esistenza, una domanda ineludibile sia per una credente come suor Franca sia per una non credente come Augusta.
L’anteprima della pellicola di Diritti, sarà preceduta il 27 marzo da una diretta satellitare, trasmessa dall’Anteo Spaziocinema di Milano, in 40 sale su tutto il territorio, durante la quale il regista e gli interpreti converseranno con il critico Gianni Canova, con la partecipazione del pubblico. Il film, una coproduzione Italia-Francia (Lumière&Co, Arancia Film, Groupe Deux), in associazione con Wild Bunch e prodotto da Rai Cinema, ha richiesto 12 impegnative settimane di lavorazione ed è stato presentato in concorso all’ultimo Sundance Film Festival.
Come nasce questo film?
L’ho pensato come un’opportunità di viaggio per lo spettatore che è al fianco della protagonista mentre lei vive intense emozioni interiori. I suoi incontri diventano i nostri. Il viaggio porta con sé l’occasione di interrogarsi e di definire le priorità della vita, con il desiderio di vivere felici. Soprattutto dopo anni e anni di consumismo e con la crisi di un certo modello economico, forte è il senso di pesantezza e oppressione e la consapevolezza che certi schemi sono saltati.
Quanto della sua storia privata e quanta religiosità ci sono in questo suo film così intimo?
La perdita di mia madre, pochi giorni prima di partire per l’Amazzonia, è stato un evento che mi ha accompagnato. I miei erano cattolici, io sono invece distante dal cattolicesimo di oggi, provo invece una grande fascinazione per il cristianesimo. Nel film è evidente come nella vita i momenti di difficoltà portino i credenti a non credere e i non credenti al dubbio. Non ho voluto tuttavia rispondere più di tanto, ma lasciare a ciascuno il compito di trovare la risposta nel suo intimo. Una cosa è certa: il bene in quanto condivisione con la comunità porta il bene al singolo.
Di nuovo in scena una comunità marginale, dopo quella montanara di una valle occitana e quella dell’Appennino emiliano.
E’ vero, un forte senso di comunità accompagna i miei film, da Il vento fa il suo giro a L’uomo che verrà . In fondo anche la troupe, quando lavoro, diventa una comunità e non è un caso che, dopo un mese di vita nella favela, molti dei suoi abitanti siano diventati gli interpreti del film. Del resto volevo raccontare che il bene del singolo passa attraverso la comunità, solo qui sta la chiave della felicità.
Ma il progresso, lei sostiene, cancella questa rete di relazioni così importante.
Addirittura spinge nel film un membro della favela a vendere un bambino per denaro. Oppure sposta, in nome di un presunto efficientismo, gli abitanti della favela in una sorta di raffinato campo di concentramento con tetto e fogne, alla periferia della grande città, ma cancellando il rapporto con il luogo e con le persone in cui si è nati e cresciuti. Scompare quella comunità così vitale.
Come mai il suo sguardo privilegia una donna e la sua vicenda personale?
La donna è naturalmente accogliente, è tutela della vita e biologicamente ne è il tempio. La sua sensibilità è preziosa, perché esprime fiducia e apertura verso l’altro, verso le relazioni. Al contrario gli uomini, spesso prigionieri del loro orgoglio e della voglia di potenza, fanno le guerre, come già avevo raccontato ne L’uomo che verrà dove il futuro è nelle mani di una bambina.
Come mai la scelta di ambientare una parte del film in Trentino?
Era necessaria una forte contrapposizione tra la dimensione brasiliana e quella europea. Il paesaggio di montagna restituisce una sensazione di rigore, di incapacità di entusiasmo e di grigiore, insomma quella condizione psicologica che Augusta lascia. Anche il santuario di San Romedio in Val di Non, con quel suo aspetto che ricorda in parte un castello, è abitato da suore che esprimono sì calore umano ma anche un sentimento amorevole un po’ stonato.
Che ci dice di quel pescatore che appare in sole due scene e con poche battute?
Simboleggia la semplicità delle relazioni umane, cioè quando qualcuno s’accorge dell’altro e va verso di lui. Ma è anche colui che non accetta il trasferimento dalla favela nel nuovo villaggio perché vuole stare in quella grande famiglia che è la comunità.
E quella preghiera recitata in ospedale dalla ragazza brasiliana?
Fa parte di quella magia che si crea sul set. E’ arrivata all’improvviso, frutto della scrittura e di una naturale visione del film. Una preghiera che testimonia che il grande valore della vita sta nella semplicità.
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