“La trama, il personaggio erano lì da qualche anno perché pensavo al mio passaggio alla regia con una storia particolarmente sentita, non solo per il senso ma anche visivamente. L’ho sempre ‘visto’ il film mentre scrivevo la sceneggiatura”.
Giorgia Cecere debutta con Il primo incarico nella sezione Controcampo italiano, dopo l’esperienza maturata come sceneggiatrice con Gianni Amelio (Porte aperte e Il ladro di bambini) – “è stato un grande maestro al Centro sperimentale” – e con Edoardo Winspeare (Sangue vivo e Il miracolo). Nel suo curriculum c’è anche l’esperienza maturata alla scuola di Ermanno Olmi a Bassano del Grappa dove realizzò Mareterra.
Il primo incarico, “un western dei sentimenti” come lo definisce la regista che l’ha scritto insieme a Li Xiang Yang e Pierpaolo Pirone, ha avuto una gestazione lunga quasi sei anni, tanto che già nel 2006 Isabella Ragonese era stata scelta dalla Cecere.
La protagonista è Nena, una giovane pugliese all’inizio degli anni ’50 che, al suo primo incarico da maestra elementare, lascia il paese salentino dove ha sempre vissuto, vicino a Santa Maria di Leuca, per trasferirsi a 150 chilometri di distanza nella campagna brindisina, in un ambiente sconosciuto e a contatto con una natura ostile. La sua capacità di resistere, il suo orgoglio e i suoi sentimenti verranno messi a dura prova, ma…
L’opera prima, in uscita il 6 maggio con Teodora Film e Spazio Cinema, è prodotta da Donatella Botti per Bianca Film e da Rai Cinema, con il sostegno dell’Apulia Film Commission, il supporto della Saietta Film di Winspeare e con i contributi delle Province di Lecce e Brindisi e dei Comuni di Cisternino e Castrignano del Capo.
Quale è stato lo spunto iniziale?
Il desiderio di raccontare una ragazza di vent’anni, il suo percorso di crescita e di scoperta della vita e innanzitutto del suo stesso cuore. Succede spesso alle donne, di inventare con tale potenza il proprio stesso sentimento da poterne poi soffrire perdutamente, anche se è frutto della nostra immaginazione. Volevo narrare questo passaggio sia quando si scopre con molta meraviglia che la vita là fuori è un’altra cosa, sia quando se ne esce e non in maniera drammatica, ma con una nuova lucidità e una riconquistata libertà anche dalle proprie ossessioni.
Chi è la maestra elementare Nena?
E’ una ragazza che ha sempre vissuto in un mondo protetto, in paese con la mamma e la sorella, con un fidanzato con il quale ha un’intesa tenera e affettuosa anche se appartengono a ceti sociali diversi: lei ha origini modeste, lui dell’alta borghesia.
Il suo primo incarico porta Nena in un’altra parte della Puglia?
Deve lasciare il paese, cosa che insieme la spaventa e la incuriosisce, e si ritrova a insegnare in una scuola e in un luogo molto selvatici e particolari. Abbiamo trovato dei posti bellissimi vicino a Cisternino,per questa parte della storia, con una natura non addomesticata, con querceti e cavalli allo stato brado. Mi serviva molto la presenza di una natura forte anche perché la storia si svolge nell’arco delle quattro stagioni che scandiscono i vari passaggi emotivi. E’ un mondo a contatto più diretto con le asprezze fisiche e morali dell’esistenza, dove è possibile per la protagonista tastare il suo coraggio. e la sua forza.
Nena è una giovane indipendente e un po’ ribelle?
Può fare un po’ di testa sua forse perché manca il padre, anche se la madre cerca di rinsavirla. Nena ha studiato, ha un piccolo potere di gestione della propria vita, per cui pensa di sapere già tutto. Ma quello che incontra e vive la porta dove non immaginava che potesse arrivare, in un luogo molto diverso della sua anima che neppure pensava che esistesse, con una chance di felicità per lei inaspettata.
Ha voluto ambientare la storia di Nena negli anni ’50.
Si è dentro quegli anni, senza privilegiare alcuni aspetti più conosciuti piuttosto che altri. I comportamenti e ciò che accade fanno parte di quel tempo ma senza sottolineature, non mi interessava un affresco sociologico.
Perché ha scelto quel periodo?
Volevo andare a un tempo immediatamente dietro le nostre spalle, che sembra però lontano. Mi interessava guardare l’oggi da lì e non osservare il passato dall’oggi. Siamo riusciti a ricreare una certa verità di quel periodo per guardare a quello che siamo nel presente. Era un mondo più diretto, nel quale la vita cominciava prima e da soli ci si confrontava. Forse è un po’ la condizione, anche se in forme diverse, di quel che vivono oggi gli immigrati.
Insomma una vicenda moderna ambientata in tempi e luoghi remoti.
Un contrasto intrigante per lo spettatore, una distanza che permette di vedere con più chiarezza. Mi affascinava andare in un’epoca in cui non sono vissuta, ma abbastanza vicina da riverberarsi su quello che siamo oggi.
Accanto a Isabella Ragonese ci sono attori non professionisti.
Una scelta di volti e attori mai visti prima, come Alberto Dol e Francesco Chiarello, molto ponderata ma necessaria per creare un mondo inedito e per rendere verosimile l’unicità di quell’avventura, di quella scoperta da parte della protagonista di un mondo inaspettato, particolare soprattutto nei suoi elementi umani. Del resto un’altra scelta audace è stata quella di avvalermi di un direttore della fotografia, Giovanni Troilo, al suo primo lungometraggio
Il film è ispirato alla vicenda dei suoi genitori?
Il nucleo originario perché la storia ha poi preso la propria strada, i personaggi quando prendono vita si conquistano anche un’autonomia. Non c’è più infatti la dedica nei titoli di testa. Mi è servita la realtà perché essa a volte s’inventa coincidenze, circostanze che neanche la fantasia più fervida riesce a inventarsi.
Quanto c’è di autobiografico nel suo film?
Molto nell’indole della protagonista, così come ho utilizzato parte del carattere di donne e giovani che conosco. Del resto i film sono spesso autobiografici: l’autore si tradisce sempre, almeno per quello che gli piace e non gli piace del mondo, degli essere umani e dei rapporti.
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